Vocabolario di una lingua che scompare – dal libro di Cesare Corradini
Ogni amante della storia e delle tradizioni della propria terra viene inevitabilmente attratto anche dal suo dialetto. Fu forse per questo che alcuni anni or sono cominciai ad annotare su un piccolo quaderno quelle parole che avevo sentito pronunciare dai miei nonni ed altre che ancora entravano nel lessico della mia generazione che, scritte in un tema, sarebbero state sottolineate dal professore con un tratto blu.La scelta del quaderno “piccolo” non fu casuale, ma derivante dalla considerazione che essendo il dialetto castiglionese così prossimo a quelli toscani, i vocaboli da annotare non sarebbero stati molti. Considerazione che presto si rivelò quanto mai errata, la dimensione di questa ricerca ne è l’esempio più eloquente; e non fu la sola valutazione frettolosa, ben presto mi ritrovai in un labirinto dal quale ancora oggi non sono certo di essere uscito. Fra i tanti, il più rilevante problema nasceva dal dover stabilire quali fossero le parole cosiddette “dialettali”; in altri termini, quali fossero le parole che non potevano considerarsi appartenenti alla lingua “standardizzata”.
Va evidenziato che il dialetto non è un sottoprodotto della lingua italiana, viceversa, nasce prima ed ha origini altrettanto nobili, derivando dalla stessa radice latina frammista alle lingue preesistenti alla espansione romana ed a quelle successive alle invasioni barbariche. La lingua letteraria deriva dal toscano perché questo ha avuto scrittori come Dante, Petrarca e Boccaccio, ma ogni dialetto ha pari dignità anche se ha avuto una storia diversa che ne ha limitato l’uso in un ambito più ristretto.
Questa considerazione è ampiamente condivisa e per rendersene conto è sufficiente scorrere un qualsiasi buon vocabolario, dove si troveranno registrate parole come “vossìa” e “voscènza”, appartenenti al vernacolo siciliano, e dove si troveranno parole come stabbio, rena, guazza(ra)che vengono usate nel dialetto castiglionese in luogo di quelle della lingua corrente che sono letame, sabbia e rugiada.
Nel dover dunque stabilire quali fossero le parole da considerare tipiche del vernacolo castiglionese, non ci si poteva riferire soltanto a quelle che non vengono riconosciute come “italiane”, ma a tutte quelle che non entrano nel linguaggio standard corrente, con risultati dalle proporzioni inizialmente non immaginabili. Infatti, tenendo conto anche delle corruzioni, delle accentazioni e dell’applicazione delle regole dialettali che costituiscono la vera peculiarietà del dialetto castiglionese, non è esagerato dire che sarebbe necessario trascrivere quasi per intero un vocabolario di Italiano.
Nello scorrere le parole che potrebbero interessare, si incontrano numerosi vocaboli di origine ben più antica di quelli della lingua italiana, ma che non ne sono entrati a far parte: ad esempio, nel dialetto castiglionese la pèsca viene detta “pèrsica”, che non è altro che il plurale latino di persicum, ossia frutto della Persia, che scientificamente si chiama prunus pèrsica. La striscia di cuoio per allacciare gli scarponi dovrebbe chiamarsi correggia, come una qualsiasi striscia di cuoio, ma nel dialetto si chiama corriolo, dal nome latino del cuoio: corium. Prezzemolo, che deriva dal greco petroselion, viene detto in dialetto “pritosello” ed il suo nome scientifico è petroselium ortensis. Ciliegia, si dice chiaracia ma anche cerasa, che deriva dal greco kerasion. E’ evidente che queste parole derivano dal latino e dal greco e hanno mantenuto nel dialetto un nome pressoché identico.
Si incontrano naturalmente anche da vocaboli entrati recentemente nel dialetto per evidenti corruzioni: ad esempio sfardo o aradio. In questi due casi la corruzione dovuta alla “o” finale. Nel primo caso “l’asfalto”, erroneamente interpretato per “la sfalto” è diventato “lo sfalto” (quindi sfardo per lo scambio in r di l e per l’indurimento della t in d), così nel secondo caso “la radio”, scambiata per maschile, è diventata “lo aradio”. Altra singolare corruzione è quella di vite, intesa sia come pianta che produce uva sia come oggetto per fissare e stringere, che viene detta vita per evidente confusione con la vita intesa come persorso degli esseri viventi.
E’ necessario precisare che le corruzioni appartenengono spesso al modo di parlare di poche persone e vanno prese in considerazione soltanto quando sono entrate a far parte del linguaggio della generalità della gente. A tal proposito, ricordo una signora che aveva “una toma doppo un priglievo da la vena orte” (un ematoma causato da un prelievo di sangue dall’aorta; da notare che ematoma, terminando in “a”, ha l’articolo femminile), espressione assoluamente personale, quali ad esempio quelle pazientemente raccolte dai Dri Vezzosi Renato e Massimo nell’ elenco al termine di questo volume.
Si incontrano poi vocaboli che non possono essere presi in considerazione perché sono entrati a far parte del modo di parlare in tempi recenti, mutuati da altri dialetti. La circolazione di persone e di idee è un fatto moderno, ed i dialetti hanno subito in questi ultimi decenni ibridazioni molto più notevoli di quanto non fosse avvenuto nei secoli scorsi, allorché era normale che una persona trascorresse l’intera vita nello stesso piccolo villaggio.
E’ comunque evidente che il modo di parlare è in continuo cambiamento, a causa della scolarizzazione di massa, della televisione che entra ogni giorno nelle case con un linguaggio uniforme che viene man mano assimilato, delle corruzioni, dei neologismi e dell’ibridazione con altri dialetti e con la lingua italiana. Cambia inoltre, anche se con minore evidenza, a causa del mutare della società e del modo di vivere, delle nuove invenzioni e del progressivo abbandono di mestieri, usanze e tradizioni. Fino a pochi decenni or sono tutti sapevano cosa fosse una fojetta, un gaucciolo, un pittolo, uno sfratazzo, una buciarda. Pochi conoscono oggi il significato di tarantello, posca, barbuta, celata, brocco; parole della lingua italiana di uso corrente nei secoli scorsi.
Queste considerazioni, a chi come il sottoscritto affronta il dialetto sotto il profilo storico e non sotto quello linguistico, portano ad una domanda: come parlavano i nostri avi? quali erano i vocaboli che usavano correntemente e che oggi non si usano più? e questo a prescindere dal fatto che questi siano o meno compresi nella lingua ufficiale.
La risposta può venire soltanto dalla consultazione delle fonti storiche. Infatti, se la ricerca fosse limitata alle sole fonti orali (il cui esame per oltre 30 anni resta comunque alla base del presente lavoro), il campo verrebbe ristretto ad un massimo di 80 – 90 anni, quindi tornando indietro nel tempo fino all’inizio del secolo scorso. Sembra veramente poco e, inoltre, non si supererebbe un periodo già influenzato dalla radio, dagli spostamenti in treno e dalla guerra mondiale, che ha tradotto i nostri padri in terre lontane facendoli vivere per anni a fianco di friulani come di siciliani, influenzandone il linguaggio. Peraltro, gli stessi documenti castiglionesi non offorno un quadro sufficientemente ampio.
Il più antico manoscritto è il “Castiglione Tiberino”, risalente alla metà del XVI secolo e pubblicato dal Comune nel 1989; ci sono poi i registri consiliari, dei quali il più antico risale al 1554, ed i registri battesimali e di morte, risalenti a circa il 1600. La rigidezza formale di questi testi offre tuttavia informazioni scarse circa i termini disusati ed ancora minori per quelli dialettali. Non risulta tuttavia errato allargare il campo di ricerca alle cronache orvietane, stante lo stretto legame storico dei due centri e quindi la sostanziale ugualianza di linguaggio.
Tutt’oggi le differenze sono minime e dovute principalmente alle accentazioni, mentre nei sostantivi la differenza è limitatissima ed anche nei verbi esiste una sostanziale ugualianza, infatti non cambiano mai gli infiniti e minime differenze esistono soltanto nelle coniugazioni. Ricordo in proposito le sonore risate di un amico orvietano che, alla domanda di quali attrazioni ci sarebbero state durante la festa patronale, si sentì rispondere: cantino, sonino e ballino. Rise molto, perché lui avrebbe detto “piu correttamente”: cantono, sonono e ballono.
Partendo quindi da questo presupposto, le fonti a disposizioni diventano numerose ed il campo di ricerca si allarga. Esistono pubblicazioni relative alle produzioni dialettali di Giuseppe Cardarelli e di Amedeo Nannarelli: Poesie in dialetto orvietano, La vinuta del Re a Orvieto e antre sonette in vernacolo orvietano, Stravaganze poetiche in vernacolo orvietano, St’artra manciata e bbasta, e pubblicazioni su ricerche effettuate sui testi trecenteschi e quatrocenteschi, Saggio di volgari orvietani del buon tempo di Luigi Fumi, Lettere volgari della regione orvietana, di Sandro Bianconi, Nuove lettere volgari della regione orvietana, di Maria Teresa Moretti.
I termini che emergono non sono tuttavia molti e non sempre sono significativi. Particolarmente per le lettere trecentesche cui si riferiscono i testi del Bianconi e della Moretti le parole stesse possono, al massimo, essere considerate corrotte e più generalmente attinenti ad un modo di scrivere rozzo ed ignorante, ma non vernacolari. Dopo aver ed aver personalmente esaminato quasi duecento di quelle stesse lettere scritte da Castiglione e zone limitrofe dopo il 1300, non è mutato affatto il risultato, come è reso chiaro da una breve lettera scritta nel 1392 da Pietro Neri di Sermugnano ai Conservatori di Orvieto: “Signori nostri ri cevemo vostra letora ne laquale si cotine che noi viscriviamo chi fuoro chi fuoro chi loro che cursoro a corbari noi vi rispondemo che noi none conescemo niuno et ne pane ne vino no e bero da noi e noi ladimanamo dove avino curso disarmi che che avino cursu a civitela di puoi avemo udito che si sono ricolti a suriiano – pietro di neri in sarmungnano”.
Ricchissimo dei termini che ci interessano è invece “Il Sollazzo e il Saporetto”, opera quattrocentesca di Simone di Golino di Nallo di Cino de’ Prudenzani, cittadino orvietano nativo di Prodo, attivo nella vita pubblica tra il 1387 ed il 1440. Ma occorre considerare che il testo, edito nel 1913 da Loescher nel Giornale Storico della Letteratura italiana e recentemente ripubblicato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto, è ricavato da cinque diversi manoscritti, corrispondenti ad altrettante trascrizioni di quello che forse era l’originale del Prudenzani, dove lo stesso termine è spesso scritto in modo diverso.
Inoltre si tratta di un’opera in versi dove è frequente il ricorso a licenze e metafore, anche con parole completamente inventate; ciò è avvalorato dallo stesso Simone che asserisce di scambiare parole per altre, facendo dubitare che il significato estratto dal contesto del discorso possa essere stravolto. Il tutto fa risultare molto complicato attribuire il vero significato ai termini inconsueti che si riscontrano, tuttavia, trovandosi di fronte a quello che probabilmente è il più antico testo di una ampiezza tale da risultare utile alla ricerca, non sembra opportuno tralasciarlo e vale la pena di tentare la traduzione, lasciando magari il dubbio nei casi più incerti ed anche correndo il rischio di cadere in errore.
Una vera, ricchissima fonte risulta invece “Il diario di Ser Tommaso di Silvestro”, a cura dell’Accademia la Nuova Fenice, pubblicato nel 1891 datta tipografia Tosini di Orvieto, e nuovamente pubblicato da Zanichelli nel 1920, in calce alle “Ephemerides Urbevetane” di Luigi Fumi, S.Lapi editore, Città di Castello, 1903. Il Diario, oltre che per l’importanza storica, anche per l’interesse letterario-dialettale, costituisce una fonte notevolissima, assolutamente di prim’ordine. Ser Tommaso di Silvestro, o Salvestro, come lui chiama il padre, era un canonico del Duomo, parroco di San Leonardo e notaio pubblico, che, venuto in possesso di una antica cronaca l’ha trascritta permettendo che fosse tramandata fino a noi.
Ha dato vita anche ad un diario relativo al suo tempo, compilando un manoscritto di 1414 pagine che copre l’arco di tempo che va dal 1482 al 1514. Ser Tommaso ha annotato la storia ed i grandi avvenimenti quali la morte dei papi, le gesta di Vitellozzo Vitelli, di Bartolomeo d’Alviano e di Cesare Borgia, ma anche i prezzi del grano, i morti di peste, le nevicate e le alluvioni, le merende in campagna e le fortune al gioco, ottenendo un lavoro da cui emerge chiara la “fisionomia della vita, dei costumi e delle vicende” del tempo. Ser Tommaso scriveva in volgare e nel Diario la messe dei vocaboli vernacolari, corrotti o disusati è veramente notevole ed interessante. Secondo Luigi Fumi, il Diario “rappresenta il più importante contributo allo studio dialettale del luogo… potendo interessare, non meno che allo storico e all’economista, al fisico, al demografo e al medico, anche al letterato e al filologo…”.
Non si può che essere pienamente d’accordo con il Fumi, che vide pubblicato in calce alla seconda edizione del Diario (1920) un glossario di “Voci poco note, corrotte ed anche sconosciute che ricorrono nel Diario di Ser Tommaso di Silvestro” nel quale l’autore, Ranieri Fumi, giunge al significato di numerosi termini rifacendosi alle origini latine e greche delle parole, azzardando spesso metatesi e sostituzioni, giungendo però altrettanto spesso a risultati errati, come risulta evidente. Il glossario diventa comunque a sua volta una preziosa fonte di per la ricerca del vernacolo per almeno tre motivi: perché contiene ulteriori termini in uso all’inizio del XX° secolo ed oggi desueti, perché ci informa sull’uso di quelli del Diario nello stesso periodo, quindi perché colma la lacuna di qualche disattenzione, evidenziando parole che sarebbero altrimenti sfuggite alla lettura. (Un altro studio a cura del Dr Bernardino Del Chierico, limitato ai termini medici, è stato pubblicato nel bollettino ISAO 1973)
Ecco quindi che l’idea di affidare a testimonianze scritte la ricerca dei termini dialettali e desueti è ottimamente supportata da un diario la cui lettura risulta tanto istruttiva quanto spassosa, fino a farla diventare difficile per quanto coinvolgente. Pur applicandovi il massimo impegno e concentrazione, è infatti frequente sorprendersi a sorvolare qualsiasi analisi e divorare il testo come il più affascinante dei romanzi. Con l’eccezione delle monotone (non sempre) registrazioni dei morti di peste, durante la lettura sembra rivivere quei giorni, sopraffatti dal fascino delle storielle che Ser Tommaso racconta con semplicità e precisione. Per giungere all’accettabile risultato di aver estratto una buona parte dei termini vernacolari, è stato necessario rileggere il testo almeno quattro volte, dovendo ogni volta effettuare numerose aggiunte, tanto da far dubitare che il lavoro sia completo.
L’esame del Diario ha portato alla luce anche aspetti insospettati. Infatti sono emersi vocaboli oggi scomparsi dal dialetto, ma facenti parte di altri, aprendo un’area di indagine interessantissima che potrebbe essere presa in considerazione soltanto in ambiti più vasti. Un esempio può essere dato dalla parola “careiola”, ossia caregiola, piccola carega, ancora in uso in parecchi diletti del nord Italia per indicare la sedia. Altra esempio potrebbe essere dato dal verbo gi, gire, l’andare oggi appartenente al dialetto perugino ed usato da Dante nella Divina Commedia, correntemente in uso a Orvieto come a Castiglione nel 1400 e 1500. Dai testi del Prudenzani è invece emerso l’uso del suffisso -ne, nelle parole che terminano con vocale accentata (guardàne, mellìne, quaggiùne), per una regola che è stata usata a Castiglione fino a tempi recenti e che si ritrova sin dagli albori della lingua italiana, ma che è completamente assente nel Diario di Ser Tommaso, quasi fosse stata abbandonata per un certo periodo per poi ritornare in uso.
Questi aspetti, insieme ad altri, fanno diventare il presente lavoro la sola base di partenza, quasi un quaderno di appunti per lo studio del dialetto castiglionese che potrà e dovrà necessariamente essere riveduto, ampliato e corretto, anche per altre ragioni. Completamente ignorate sono ad esempio certe esclusività nell’uso di alcune parole, pur italiane, nei confronti di altre. Ad esempio nel dialetto non comparirà mai uccidere ma sempre ammazzà(re), mai pioggia ma sempre acqua, mai rocce ma sempre pietre, mai gambe ma sempre zampe (anche per l’uomo), mai formaggio ma sempre cacio, mai ghiaccio ma sempre gelo. La ricerca è inoltre difettiva per quanto concerne i nomi di animali, insetti in particolare, e di vegetali (questo è l’aspetto che più mi duole), in primo luogo per l’allontanamento dalle campagne che ne ha fatto talvolta dimenticare l’esistenza, quindi per la difficoltà oggettiva individuare quelli ancora menzionati e successivamente di classificarli esattamente.
Risulta così trovata la risposta alle domande poste e tracciate le linee generali di ricerca, che passano senz’altro attraverso l’analisi del linguaggio delle persone più anziane, ma anche attraverso la lettura dei documenti locali e delle cronache di Orvieto, del cui dialetto quello castiglionese è fratello gemello. Naturalmente non sono state tralasciate altre strade, che qui certo non è possibile descrivere compiutamente. Sembra però opportuno citarne almeno quella dell’onomastica in generale e dei cognomi e dei soprannomi in particolare, che ha portato a risultati inaspettati, naturalmente prendendo in considerazione soltanto quelli tipici della zona, riscontrabili altrove per evidenti emigrazioni.
Qualche esempio può venire dai cognomi Baciarello (Baco da seta), Bertitognolo e Brozzolo (protuberanza, bernoccolo), Caiello (stomanco), Cavalloro (da cacalloro), Ferlicca, (metatesi di Frellicca, a sua volta contrazione di frelleppica), Funcello (fuccello), Mosciarello (castagna secca), Pacchiarotti (grassottello) Roticiani (anche nelle variati Rotigiani e Rotisciani, abitante di Rota, l’attuale Bagnoregio), Scargetta (Da scarcia, stiancia, cognome che si riscontra soltanto lungo la valle umbra del Tevere, dove nasce la pianta), Scorsino (da scorza), Saleppichi (da saleppico). Altri esempi vengono dai soprannomi, quali Canepino (biondiccio, con i capelli del colore della canapa), Corbattino (diminutivo di cravatta), Cifolo (imbronciato), Boncio (offeso).
Tra le fonti scritte sono state tenute in debita considerazione l’opera dialettale del civitonico Filippo Paparozzi e una cronaca di Todi del XV° – XVI° secolo manoscritta da Ioan Fabritio degli Atti, per la cui consultazione si ringrazia il sig. Fulvio Belcapo, attuale possessore, particolarmente per vocaboli che si rinsontrano anche in documenti orvietani e castiglionesi, quasi a riprova dello streto legame allora esistente con quel dialetto, evidentemente allora meno influenzato dal perugino di quanto non sia oggi.
Il risultato per ora ottenuto è un glossario del vernacolo castiglionese, e non un vocabolario dialettale in quanto contenente anche vocaboli desueti della lingua italiana, che crea purtroppo il problema di avere dimensioni non accettabili per una pubblicazione divulgativa. E’ sembrato possibile risolverlo parzialmente eliminando tutte quelle parole che, seppur dialettali, rispondono a precise regole costantemente applicate. Ad esempio, dato che la coppia di consonanti “gl” si trasforma sempre nella “j” di Jugoslavia”, non sono state elencate tutte le parole che le contengono: moje, fijo, majo ecc.. Ancora, la coppia di consonanti “nd” si trasforma in “nn”, per cui non sono state elencate parole come quanno, monno, rotonno, ecc.. Ciò ha comunque reso necessaria una sezione dedicata alle regole fonetiche e grammaticali, cosa che peraltro non risulterà inutile.
Infine, nella consapevolezza che il glossario sarà fertile terreno per i soliti detrattori che tutto sanno ma nulla rivelano circa la nostra storia e si impegnano unicamente a criticare chi si adopera disinteressatamente per divulgare la storia, gli usi e costumi del passato, è necessario dire che non rappresenta una dotta disquisizione sul dialetto, ma soltanto il frutto di una paziente ricerca, oltre che sui testi citati anche su larga parte della letteratura italiana dal 1300 al 1500.
In piena coscienza degli errori che certamente contiene, si è cercato di ridurli al minimo rifacendosi alle definizioni del vocabolario Zingarelli e di due vocabolari “datati”, dove è stato possibile rinvenire parole accantonate dal lessico moderno: il “Nuovissimo Vocabolario della Lingua Italiana Scritta e Parlata”, aggiornato da Nicolò Tommaseo ed edito da Bietti editori nel 1888, ed il vocabolario della Crusca nella edizione del 1859. Soltanto in rari casi si è fatto ricorso ad un dizionario di più vaste proporzioni quale il dizionario enciclopedico UTET.