di Tiziana Tafani da Roma.
Sono uscita di mattina presto, marzo armava una di quelle albe spirituali che ti ricordano all’improvviso i colori del mondo, ed io mi accingevo a percorrere in taxi la strada che mi separava dalla clinica dove presto mi sarei operata. Da tempo che avrei dovuto fare ricorso a cure severe ma, come ogni essere umano che crede di recare in sé il germe divino dell’immortalità, avevo lasciato che il tempo mi aspettasse e che fosse troppo tardi per evitare sofferenze ed invasioni corporali ma io sono fatta così, arrivo sempre alla fine, quando l’alternativa è l’apnea.
Roma tra poco avrebbe cominciato a brulicare di anime e dei soliti scomposti rumori dell’entropia sociale in cui l’avevamo ridotta, per questo mi godevo quei minuti di silenzio che mi parevano il giusto viatico per l’avventura dolorosa a cui i miei scarsi mezzi di resistenza fisica mi avevano costretta. Le analisi erano pronte la stanza con le lenzuola bianche e la finestra, il camice operatorio, lo spazio di un corridoio ed io avevo già raggiunto l’altra me stessa che aspettava di vivere un sonno insperato.
Mentre mi riportavano nella mia stanza il dolore aveva già occupato ogni parte del mio corpo, si era insinuato nelle braccia, aveva tolto il passo alle gambe, la voce alla bocca, il sonno agli occhi, tutto era diventato soltanto quel dolore atroce che scolpiva dentro di me qualcosa di sconosciuto e terribile, stavo così male che avrei avuto il tempo di morire, se non fosse stato che la metrica dell’universo aveva scelto di giocare per me carte diverse.
Sola. Ero sola. Da fuori arrivava un silenzio che faceva apparire il mio dolore in tutta la sua monumentale presenza, ed io ero concentrata a non urlare e basta, a guardare l’orologio fermo in ore che clonavano se stesse in una immobilità infernale. Chiedevo abbracci che non arrivavano, anche il telefono era muto, mi sentivo estranea al mondo. Qualche bisbiglio, ma non capivo. Dopo tre giorni di quell’inferno i medici mi fecero uscire.
Non era cambiato niente, o forse era cambiato tutto talmente bene che mi trovavo alla scena iniziale di quella odiosa partitura, Roma apparecchiata da un cielo di marzo vanitoso come ogni primavera, spettrale, senza un rumore, senza un movimento. In poche ore era cambiato il mondo e la notizia della catastrofe mi trovò impreparata mentre aprivo la porta di casa e mi sta accompagnando ancora.