di Laura Sensi da Roma
Innanzi tutto devo dire che i Sensi non sono castiglionesi.
Vengono da Grotte S. Stefano dove, attraverso le memorie ed i documenti pervenuti fino a me, posso dire che vi abitavano almeno dalla metà del 1600.
Il bisnonno Antonio, medico, padre di nonno Tito, incontrò un collega di Castiglione, Domenico Polverini, medico anche lui e conobbe Gemma, sua figlia che scelse come moglie.
Tito, mio nonno, era il maggiore dei tre figli che ebbero e non poté fare Medicina in quanto soffrì di una malattia agli occhi che gli abbassò notevolmente la vista. La Veterinaria utilizzava più le mani degli occhi e quindi cambiò la scelta vincendo, dopo la laurea, la condotta a Castiglione dove si trasferì. La casa di Pietro Polverini, medico anche lui e fratello di sua madre ed Anna Gori Polverini, sua moglie, divenne la sua seconda casa.
Polverini e Gori avevano unito la grande casa del Borgo, di fronte a San Giovanni, in precedenza proprietà del conte Bianconi, che le due famiglie avevano acquistato dividendola e poi, col matrimonio, riunendola.
I due zii non ebbero figli e Tito colmò quel vuoto. Anna prese il posto di sua madre, amatissima e morta troppo giovane esponendosi al contagio dei malati di suo marito, che curava amorevolmente.
Insieme a loro viveva Mariannina, una cugina di Anna Gori, rimasta sola e senza beni. Il nonno si stabilì a Castiglione subito dopo essersi sposato con Elvira Cesarei, figlia di un proprietario terriero di San Michele in Teverina e, acquistato un pezzo di terra al limite del paese, cominciò a costruirvi una casa.
Se notate, sul muro della costruzione che confina col passo carraio della casa di mio cugino, che era la casa del nonno, si legge a malapena il nome di Castiglione, che cominciava proprio lì.
Il paese sorge in una zona di grotte e il nonno quasi finì i soldi di cui disponeva per colmare con sassi e detriti la caverna che trovò dove aveva deciso di costruire.
In parte il vuoto fu sfruttato per fare un’enorme cantina sotto la casa che corrisponde a tutta la sua superficie. Un bellissimo locale a voltoni, che scendeva ulteriormente fino ad una grotta che si affaccia sul costone che guarda verso il Porcino.
Il piano regolatore del paese, portò via una parte del terreno dietro la casa per farvi passare via Gramsci e quindi la separò da quello che rimase orto.
Nacque il primo figlio, Ettore, seguito da Giovanni.
La febbre spagnola si portò via il primogenito e ad Elvira, che allattava il piccolo Giovanni, non le fu permesso di avvicinare il figlio morente.
La storia di un diverso coronavirus.
La famiglia crebbe e seguirono la nascita di Cesare (1919), Maria (1920) e Silvia (1926).
Sorvolo su altre notizie ed arrivo ai tempi di guerra, quando mio nonno, che aveva venduto la sua parte di poderi avuti in eredità dal padre a Grotte, acquistando a Castiglione, possedeva o amministrava, per conto della zia rimasta vedova, all’incirca 250 ettari di terra.
Il fratello di sua madre Pietro Polverini, che mi è stato descritto come dispotico e prepotente, ha lasciato indubbiamente un segno sulla personalità di Tito, il cui padre era un uomo buono e tranquillo.
Il nonno prese parte alla fondazione dei Fasci Castiglionesi, da buon proprietario terriero che difendeva quanto possedeva. Ma, lo dico a ragion veduta e perché lo conoscevo molto bene, fu sempre diviso tra la parte Sensi, pacifica e moderata e quella Polverini, decisamente diversa.

Non volle mai vestire l’orbace e cominciò a vedere il fascismo con altri occhi quando l’Italia entrò in guerra: lo zio Giovanni, veterinario appena laureato fu mandato con gli alpini in Montenegro e zio Cesare, sergente medico, in Sicilia.
Si versò l’oro alla patria e così sparirono le fedi dei nonni.
La recinzione del giardino intorno casa fu requisita in quanto di ferro e rimase solo il grande cancello, non so per quale ragione.
A Castiglione arrivarono i tedeschi che occuparono le scuole elementari e volevano requisire la casa del nonno per il quartier generale.
La cosa scatenò le ire di nonna Elvira che spostò l’attenzione sulla casa dei Rosati dalla quale si poteva vedere probabilmente la valle ed il ponte sul Tevere che erano venuti a presidiare. Della nostra casa fu requisita un’unica stanza dove vennero alloggiati due sottufficiali che, con la loro pulizia ed educazione, finirono col tempo per entrare nelle grazie della nonna, anche se il nonno mentì loro dicendo che lo scaldabagno a legna non era funzionante e costringendo i due miseri ad usare solo acqua fredda.
Quella stanza da allora è sempre stata chiamata ‘la camera dei forestieri’.
Al nonno fu anche requisita la radio e lui, cocciuto come pochi, decise di andarsela a riprendere.
Lo fece portandosi al seguito mia madre, allora poco più che ventenne, nei locali della scuola, tra gli sguardi attenti dei soldati che però non si opposero ad un uomo tanto deciso ed infuriato, probabilmente distratti proprio dalla presenza di mia madre (che definì sempre l’azione del nonno come sconsiderata).
Quando si persero le tracce di zio Giovanni la frattura tra Mussolini ed il nonno fu definitiva.
Dopo l’8 settembre e lo sbarco degli Alleati in Sicilia zio Cesare tornò a casa e riprese gli studi di Medicina a Perugia e mio padre, figlio di un cugino del nonno, Alessandro, medico a Tivoli, si trasferì a casa di nonno Tito per sfuggire alla chiamata dell’editto Graziani.
Lui che era ufficiale effettivo e disse che aveva giurato fedeltà al Re e non a Mussolini.
La cosa strana è che i tedeschi non ebbero mai verso di lui alcuna reazione e papà mi raccontò che il viaggio tra Tivoli e Castiglione lo fece persino su camion tedeschi.
Mio padre era reduce dalla campagna di Russia e, dopo il periodo di quarantena che seguì la sua convalescenza per il congelamento ai piedi, fu destinato alla difesa di Milano dove alloggiò dentro il Museo di Brera, a difesa dei beni che vi erano contenuti.
Vi risparmio il racconto di come riuscì a tornare a Tivoli da Milano, descritto già da molti film.
Dopo l’8 settembre, mentre i nonni e le due figlie erano a cena, si udì un imperativo scampanellio alla porta e la donna di servizio, l’Artilla, fu quasi travolta da un gruppo di SS che entrarono prepotentemente in casa e vollero ispezionare ogni stanza lasciando tutti impietriti. (Il ricordo proviene da zia Silvia)
Cosa stavano cercando? Lo si seppe in seguito. Volevano vedere se c’erano fotografie del Re Sciaboletta! Ma trovarono solo le foto dei bisnonni e dello zio Pietro e se ne andarono sbattendo il portone.
Mio padre prese il posto di zio Giovanni e zio Cesare accanto al nonno, consigliandolo e prendendosi cura delle cose e degli affari di famiglia.
Mia madre e mia zia, entrambe belle, esercitavano sugli ufficiali tedeschi una giusta attrazione e papà servì a smorzare anche i loro entusiasmi, anche perché lui era innamorato, da quando era un adolescente, di mia madre e fu in quel periodo che si fidanzarono segretamente.

Mio padre era del 1922 ed aveva quindi poco più di 22 anni quando gli Inglesi entrarono a Castiglione il 13 giugno del 1944.
Era rimasto a guardia delle casa perché il nonno e tutta la famiglia si erano rifugiati al Porcino, dove c’era tutta la famiglia Lattanzi ed il nonno aveva fatto costruire un rifugio a forma di ferro di cavallo che però non era riuscito a terminare e che quindi aveva un’unica uscita.
Vi aveva fatto trasferire tutti, trasportando letti e materassi e Tito ed i vecchi ed i giovani Picini attesero insieme che papà desse il segnale che i tedeschi erano stati rimpiazzati dagli inglesi sventolando una federa dalla finestra della camera dei forestieri.
La mamma mi disse che un’asina bloccò l’unica uscita del rifugio del Porcino e vi fece i suoi bisogni impuzzolentendo tutti.
Meglio se la cavò mio padre che aveva portato nella grande cantina sotto casa la seggiola a dondolo della nonna e che, dopo aver conosciuto la fame in Russia, pensava, tra prosciutti e salami appesi alle travi, formaggi protetti dietro una fitta rete in un armadio scavato nel muro e le botti di vino, che il Paradiso doveva essere proprio fatto così.
Quando arrivò il 13 giugno e gli inglesi, dopo tanto tergiversare, si decisero ad entrare in paese papà corse a sventolare la federa.
Un colpo di mortaio sparato dagli inglesi gli fece fare due piani di corsa fino alla cantina ad una velocità che lui definì incredibile.
Fortunatamente l’unica conseguenza fu un segno sul muro ed il suo spavento.
Papà ripartì per Roma, dove si ripresentò alla sua caserma e riprese servizio, con grande dispiacere da parte del nonno.
Zio Giovanni, ormai dato per disperso e di cui si evitava accuratamente di parlare in casa, ricomparve all’improvviso.
Mia madre era sulla finestra del primo piano di casa e mio nonno fuori del cancello quando una camionetta si fermò e ne scese un ufficiale con la divisa da inglese, alto e biondo. La mamma lo riconobbe ed urlò: ‘Giovanni!’, che lui era già di fronte al nonno, sorridente… ‘Babbo!’ gli disse. E mio nonno non riuscì a parlare per molto tempo per lo shock .
Mia madre mi ha raccontato che furono sacrificati a lui ed ai compagni alpini che lo avevano seguito, prosciutti salami e scorse molto vino…
La storia?
Lo zio, che a malapena sapeva nuotare, giunto sulle coste albanesi, aveva messo su un barcone i suoi uomini che fuggivano dal Montenegro ed avevano attraversato l’Adriatico sbarcando ad Otranto, nella Puglia dove si era rifugiato Sciaboletta.
Tra un bicchiere e l’atro di vino gli alpini ricordavano, sorridendo e ringraziando, quanti pugni si erano presi dallo zio che impedì loro di bere l’acqua del mare.