di Marco Luzzi.
Nel Comitato Festeggiamenti del 1999, formato dalle classi 1948-49 e 1968-69 decidemmo di destinare parte del ricavato per la festa al restauro della Sacra immagine lignea del S.S Crocifisso, che presentava preoccupanti segni di decadimento. Sapendo di affrontare le varie difficoltà e lungaggini burocratiche non ci perdemmo d’animo e in poco tempo il Comitato decise di far seguire il restauro da un gruppo di studio formato da tre laureande castiglionesi presso la facoltà di Conservazione dei Beni Culturali di Viterbo (Silvia Pepe, Katia Bonifazi e Mikaela Giuliani), affidandogli l’incarico di ricercare notizie e documenti riguardanti le origini e la storia del SS. Crocifisso e documentare le fasi del restauro. Lavoro che poi è stato è stato raccolto in un libro della collana del Comune di C.i.T
Raccolti i consensi e la collaborazione da parte del sindaco Chiucchiurlotto, anch’egli nel comitato, dalla Confraternita, Comitato Parrocchiale e Pro Loco, sorse il primo problema, ossia l’individuazione del restauratore. Ricordo le prime discussioni sulla scelta che spaziavano dal qualsiasi falegname, al restauratore di mobili fino ad un fantomatico restauratore del Vaticano. Alla fine, visto che comunque l’opera risultava catalogata presso la soprintendenza dei beni artistici del Lazio, dovemmo invece avviare tutta una serie di pratiche e permessi e soprattutto presentare uno studio di fattibilità molto tecnico e da personale qualificato.
Per via di un amicizia in comune nell’ambiente universitario, Silvia Pepe venne in contatto con una giovane e titolata restauratrice di Valentano, Licia Zappatore, che si rese subito interessata e disponibile al difficile restauro dell’opera, fornendo un progetto da sottoporre alla commissione esaminatrice della soprintendenza di Roma. Dopo una corsa agli ostacoli con la burocrazia e i permessi della soprintendenza, in certi passaggi veramente assurdi e scoraggianti, il restauro ebbe inizio verso Gennaio/Febbraio del 2000.
Ma come per miracolo e a tempo di record, la sera del 2 Maggio il SS. Crocifisso fu riposto nella sua urna, sorprendendo all’Esposizione i trepidanti fedeli per il suo ritrovato splendore artistico originario e nella sua straordinaria bellezza.
– La tradizione castiglionese stabilisce che ogni anno venga ad insediarsi in Paese un Comitato dei Festeggiamenti, che ha il compito di organizzare le celebrazioni dei dodici mesi in cui dura l’incarico, che culmina con la Festa in onore del SS. Crocefisso, protettore dei Castiglionesi e da sempre occasione di tassativo ritrovo per tutti, specie per noi, che siamo andati via.
Per lungo tempo il Comitato è stato affidato alla buona volontà ed all’entusiasmo di un gruppo di Castiglionesi che decidevano di dedicarsi a questa bella avventura sociale, poi stabilirono le regole: chi nell’anno di riferimento avrebbe compiuto 30 o 50 anni avrebbe ricevuto la naturale investitura a farne parte.
E dunque capitò anche a me. Tra i compiti affidati al Comitato, c’è anche “il libretto”, ovvero la predisposizione di un calendario con tutte le iniziative organizzate per celebrare il Santo, che contiene una prefazione in cui il Comitato uscente racconta qualcosa della propria esperienza. A noi venne in mente di andare a conoscere la storia del Vexilla, il canto maestoso che accompagna il passaggio del Crocifisso, che si tramanda da secoli in lingua latina e che, oltre all’emozione che trasmette, costituisce una parte importante della nostra storia e della nostra musica, specie quella sacra.
“Avanzano le insegne del Signore, risplende il mistero della croce”.
Noi castiglionesi aspettiamo ogni anno che le nostre preghiere si disfino in una sola voce, che narra di un misterioso carme, una preghiera, un poemetto latino di cui conosciamo l’impeto emotivo e non la storia.
Il Vexilla Regis fu scritto da S. Venanzio Onorio Clemenziano Fortunato, che nacque a Valdobbiadene – un territorio che sta tra Venezia e le Dolomiti – nel 530, e morì Vescovo in Francia all’inizio del VII sec d.C.
Venanzio Fortunato era uno studioso di grammatica, retorica e diritto.
La storia della sua ordinazione narra che da giovane fosse stato colpito da un male agli occhi, e che guarì grazie alle unzioni con l’olio di una lampada che ardeva davanti a S. Martino di Tours.
Per rendere preghiera e ringraziamento al Santo del miracolo, Venanzio Fortunato si recò in pellegrinaggio a Tours, in Francia, presso la Valle della Loira. A Tours Venanzio Fortunato conobbe la principessa di Turingia, Redegonda, e qui si stabilì per dedicarsi alla vita monastica.
Ma il suo destino lo avrebbe poi portato altrove. Alla morte della principessa Redegonda si spostò infatti presso altre città del Regno dei Franchi, e morì, da Vescovo a Poitiers, nel centro della Francia, nell’attuale regione della Nuova Aquitania, nel 607 d. C.
A Venanzio Fortunato si debbono alcuni tra i poemi religiosi ed inni sacri più celebri della cristianità, specie il Pange Lingua ed il Vexilla Regis, che il Santo compose quando gli venne donata una reliquia dall’imperatore Giustino II.
Il Vexilla Regis, che viene cantato in onore della Santa Croce in molte città italiane, ha visto accresciuta la propria fama dal fatto di essere stato ripreso nella Divina Commedia di Dante, nel canto XXXIV dell’Inferno – meglio noto come il Canto di Lucifero – dove al primo verso il Sommo Poeta si esprime attraverso una parafrasi del Vexilla di Venanzio Fortunato:
Vexilla Regis prodeunt Inferni (ecco avanzano le insegne del re degli inferi)
Con questo verso, dunque, Dante rovescia il senso del carme ed introduce, nella Divina Commedia, la figura più lontana da Dio, Lucifero.
Molti, tra scrittori e musicisti ripresero il Vexilla o ne musicarono i versi, tra i poeti Joyce, tra i musicisti Puccini, Liszt, Bruckner.
Ma il nostro, quello che tutti noi cantiamo a Castiglione, nella sua metrica mistica, è certamente il più bello.
Sono uscita di mattina presto, marzo armava una di quelle albe spirituali che ti ricordano all’improvviso i colori del mondo, ed io mi accingevo a percorrere in taxi la strada che mi separava dalla clinica dove presto mi sarei operata. Da tempo che avrei dovuto fare ricorso a cure severe ma, come ogni essere umano che crede di recare in sé il germe divino dell’immortalità, avevo lasciato che il tempo mi aspettasse e che fosse troppo tardi per evitare sofferenze ed invasioni corporali ma io sono fatta così, arrivo sempre alla fine, quando l’alternativa è l’apnea.
Roma tra poco avrebbe cominciato a brulicare di anime e dei soliti scomposti rumori dell’entropia sociale in cui l’avevamo ridotta, per questo mi godevo quei minuti di silenzio che mi parevano il giusto viatico per l’avventura dolorosa a cui i miei scarsi mezzi di resistenza fisica mi avevano costretta. Le analisi erano pronte la stanza con le lenzuola bianche e la finestra, il camice operatorio, lo spazio di un corridoio ed io avevo già raggiunto l’altra me stessa che aspettava di vivere un sonno insperato.
Mentre mi riportavano nella mia stanza il dolore aveva già occupato ogni parte del mio corpo, si era insinuato nelle braccia, aveva tolto il passo alle gambe, la voce alla bocca, il sonno agli occhi, tutto era diventato soltanto quel dolore atroce che scolpiva dentro di me qualcosa di sconosciuto e terribile, stavo così male che avrei avuto il tempo di morire, se non fosse stato che la metrica dell’universo aveva scelto di giocare per me carte diverse.
Sola. Ero sola. Da fuori arrivava un silenzio che faceva apparire il mio dolore in tutta la sua monumentale presenza, ed io ero concentrata a non urlare e basta, a guardare l’orologio fermo in ore che clonavano se stesse in una immobilità infernale. Chiedevo abbracci che non arrivavano, anche il telefono era muto, mi sentivo estranea al mondo. Qualche bisbiglio, ma non capivo. Dopo tre giorni di quell’inferno i medici mi fecero uscire.
Non era cambiato niente, o forse era cambiato tutto talmente bene che mi trovavo alla scena iniziale di quella odiosa partitura, Roma apparecchiata da un cielo di marzo vanitoso come ogni primavera, spettrale, senza un rumore, senza un movimento. In poche ore era cambiato il mondo e la notizia della catastrofe mi trovò impreparata mentre aprivo la porta di casa e mi sta accompagnando ancora.
Innanzi tutto devo dire che i Sensi non sono castiglionesi.
Vengono da Grotte S. Stefano dove, attraverso le memorie ed i documenti pervenuti fino a me, posso dire che vi abitavano almeno dalla metà del 1600.
Il bisnonno Antonio, medico, padre di nonno Tito, incontrò un collega di Castiglione, Domenico Polverini, medico anche lui e conobbe Gemma, sua figlia che scelse come moglie.
Tito, mio nonno, era il maggiore dei tre figli che ebbero e non poté fare Medicina in quanto soffrì di una malattia agli occhi che gli abbassò notevolmente la vista. La Veterinaria utilizzava più le mani degli occhi e quindi cambiò la scelta vincendo, dopo la laurea, la condotta a Castiglione dove si trasferì. La casa di Pietro Polverini, medico anche lui e fratello di sua madre ed Anna Gori Polverini, sua moglie, divenne la sua seconda casa.
Polverini e Gori avevano unito la grande casa del Borgo, di fronte a San Giovanni, in precedenza proprietà del conte Bianconi, che le due famiglie avevano acquistato dividendola e poi, col matrimonio, riunendola.
I due zii non ebbero figli e Tito colmò quel vuoto. Anna prese il posto di sua madre, amatissima e morta troppo giovane esponendosi al contagio dei malati di suo marito, che curava amorevolmente.
Insieme a loro viveva Mariannina, una cugina di Anna Gori, rimasta sola e senza beni. Il nonno si stabilì a Castiglione subito dopo essersi sposato con Elvira Cesarei, figlia di un proprietario terriero di San Michele in Teverina e, acquistato un pezzo di terra al limite del paese, cominciò a costruirvi una casa. Se notate, sul muro della costruzione che confina col passo carraio della casa di mio cugino, che era la casa del nonno, si legge a malapena il nome di Castiglione, che cominciava proprio lì.
Il paese sorge in una zona di grotte e il nonno quasi finì i soldi di cui disponeva per colmare con sassi e detriti la caverna che trovò dove aveva deciso di costruire.
In parte il vuoto fu sfruttato per fare un’enorme cantina sotto la casa che corrisponde a tutta la sua superficie. Un bellissimo locale a voltoni, che scendeva ulteriormente fino ad una grotta che si affaccia sul costone che guarda verso il Porcino.
Il piano regolatore del paese, portò via una parte del terreno dietro la casa per farvi passare via Gramsci e quindi la separò da quello che rimase orto. Nacque il primo figlio, Ettore, seguito da Giovanni.
La febbre spagnola si portò via il primogenito e ad Elvira, che allattava il piccolo Giovanni, non le fu permesso di avvicinare il figlio morente.
La storia di un diverso coronavirus.
La famiglia crebbe e seguirono la nascita di Cesare (1919), Maria (1920) e Silvia (1926).
Sorvolo su altre notizie ed arrivo ai tempi di guerra, quando mio nonno, che aveva venduto la sua parte di poderi avuti in eredità dal padre a Grotte, acquistando a Castiglione, possedeva o amministrava, per conto della zia rimasta vedova, all’incirca 250 ettari di terra.
Il fratello di sua madre Pietro Polverini, che mi è stato descritto come dispotico e prepotente, ha lasciato indubbiamente un segno sulla personalità di Tito, il cui padre era un uomo buono e tranquillo.
Il nonno prese parte alla fondazione dei Fasci Castiglionesi, da buon proprietario terriero che difendeva quanto possedeva. Ma, lo dico a ragion veduta e perché lo conoscevo molto bene, fu sempre diviso tra la parte Sensi, pacifica e moderata e quella Polverini, decisamente diversa.
Nel giardino della casa in via Orvietana
Non volle mai vestire l’orbace e cominciò a vedere il fascismo con altri occhi quando l’Italia entrò in guerra: lo zio Giovanni, veterinario appena laureato fu mandato con gli alpini in Montenegro e zio Cesare, sergente medico, in Sicilia.
Si versò l’oro alla patria e così sparirono le fedi dei nonni.
La recinzione del giardino intorno casa fu requisita in quanto di ferro e rimase solo il grande cancello, non so per quale ragione.
A Castiglione arrivarono i tedeschi che occuparono le scuole elementari e volevano requisire la casa del nonno per il quartier generale.
La cosa scatenò le ire di nonna Elvira che spostò l’attenzione sulla casa dei Rosati dalla quale si poteva vedere probabilmente la valle ed il ponte sul Tevere che erano venuti a presidiare. Della nostra casa fu requisita un’unica stanza dove vennero alloggiati due sottufficiali che, con la loro pulizia ed educazione, finirono col tempo per entrare nelle grazie della nonna, anche se il nonno mentì loro dicendo che lo scaldabagno a legna non era funzionante e costringendo i due miseri ad usare solo acqua fredda. Quella stanza da allora è sempre stata chiamata ‘la camera dei forestieri’.
Al nonno fu anche requisita la radio e lui, cocciuto come pochi, decise di andarsela a riprendere.
Lo fece portandosi al seguito mia madre, allora poco più che ventenne, nei locali della scuola, tra gli sguardi attenti dei soldati che però non si opposero ad un uomo tanto deciso ed infuriato, probabilmente distratti proprio dalla presenza di mia madre (che definì sempre l’azione del nonno come sconsiderata).
Quando si persero le tracce di zio Giovanni la frattura tra Mussolini ed il nonno fu definitiva.
Dopo l’8 settembre e lo sbarco degli Alleati in Sicilia zio Cesare tornò a casa e riprese gli studi di Medicina a Perugia e mio padre, figlio di un cugino del nonno, Alessandro, medico a Tivoli, si trasferì a casa di nonno Tito per sfuggire alla chiamata dell’editto Graziani.
Lui che era ufficiale effettivo e disse che aveva giurato fedeltà al Re e non a Mussolini.
La cosa strana è che i tedeschi non ebbero mai verso di lui alcuna reazione e papà mi raccontò che il viaggio tra Tivoli e Castiglione lo fece persino su camion tedeschi. Mio padre era reduce dalla campagna di Russia e, dopo il periodo di quarantena che seguì la sua convalescenza per il congelamento ai piedi, fu destinato alla difesa di Milano dove alloggiò dentro il Museo di Brera, a difesa dei beni che vi erano contenuti.
Vi risparmio il racconto di come riuscì a tornare a Tivoli da Milano, descritto già da molti film.
Dopo l’8 settembre, mentre i nonni e le due figlie erano a cena, si udì un imperativo scampanellio alla porta e la donna di servizio, l’Artilla, fu quasi travolta da un gruppo di SS che entrarono prepotentemente in casa e vollero ispezionare ogni stanza lasciando tutti impietriti. (Il ricordo proviene da zia Silvia)
Cosa stavano cercando? Lo si seppe in seguito. Volevano vedere se c’erano fotografie del Re Sciaboletta! Ma trovarono solo le foto dei bisnonni e dello zio Pietro e se ne andarono sbattendo il portone.
Mio padre prese il posto di zio Giovanni e zio Cesare accanto al nonno, consigliandolo e prendendosi cura delle cose e degli affari di famiglia.
Mia madre e mia zia, entrambe belle, esercitavano sugli ufficiali tedeschi una giusta attrazione e papà servì a smorzare anche i loro entusiasmi, anche perché lui era innamorato, da quando era un adolescente, di mia madre e fu in quel periodo che si fidanzarono segretamente.
Mia madre in via orvietana
Mio padre era del 1922 ed aveva quindi poco più di 22 anni quando gli Inglesi entrarono a Castiglione il 13 giugno del 1944.
Era rimasto a guardia delle casa perché il nonno e tutta la famiglia si erano rifugiati al Porcino, dove c’era tutta la famiglia Lattanzi ed il nonno aveva fatto costruire un rifugio a forma di ferro di cavallo che però non era riuscito a terminare e che quindi aveva un’unica uscita.
Vi aveva fatto trasferire tutti, trasportando letti e materassi e Tito ed i vecchi ed i giovani Picini attesero insieme che papà desse il segnale che i tedeschi erano stati rimpiazzati dagli inglesi sventolando una federa dalla finestra della camera dei forestieri.
La mamma mi disse che un’asina bloccò l’unica uscita del rifugio del Porcino e vi fece i suoi bisogni impuzzolentendo tutti.
Meglio se la cavò mio padre che aveva portato nella grande cantina sotto casa la seggiola a dondolo della nonna e che, dopo aver conosciuto la fame in Russia, pensava, tra prosciutti e salami appesi alle travi, formaggi protetti dietro una fitta rete in un armadio scavato nel muro e le botti di vino, che il Paradiso doveva essere proprio fatto così.
Quando arrivò il 13 giugno e gli inglesi, dopo tanto tergiversare, si decisero ad entrare in paese papà corse a sventolare la federa.
Un colpo di mortaio sparato dagli inglesi gli fece fare due piani di corsa fino alla cantina ad una velocità che lui definì incredibile.
Fortunatamente l’unica conseguenza fu un segno sul muro ed il suo spavento.
Papà ripartì per Roma, dove si ripresentò alla sua caserma e riprese servizio, con grande dispiacere da parte del nonno.
Zio Giovanni, ormai dato per disperso e di cui si evitava accuratamente di parlare in casa, ricomparve all’improvviso.
Mia madre era sulla finestra del primo piano di casa e mio nonno fuori del cancello quando una camionetta si fermò e ne scese un ufficiale con la divisa da inglese, alto e biondo. La mamma lo riconobbe ed urlò: ‘Giovanni!’, che lui era già di fronte al nonno, sorridente… ‘Babbo!’ gli disse. E mio nonno non riuscì a parlare per molto tempo per lo shock .
Mia madre mi ha raccontato che furono sacrificati a lui ed ai compagni alpini che lo avevano seguito, prosciutti salami e scorse molto vino…
La storia?
Lo zio, che a malapena sapeva nuotare, giunto sulle coste albanesi, aveva messo su un barcone i suoi uomini che fuggivano dal Montenegro ed avevano attraversato l’Adriatico sbarcando ad Otranto, nella Puglia dove si era rifugiato Sciaboletta.
Tra un bicchiere e l’atro di vino gli alpini ricordavano, sorridendo e ringraziando, quanti pugni si erano presi dallo zio che impedì loro di bere l’acqua del mare.
Ricordi di Marcello Camilli in periodo di Coronavirus
Erano gli anni 50/60 quando le campagne erano ancora abitate e coltivate da famiglie contadine; tutti i poderi erano gestiti da una o più famiglie con conduzione a mezzadria. Io, figlio di contadini, mio padre Camillo conduceva insieme a mia madre ed i miei fratelli più grandi Gianni ed Ivo, il Podere denominato “Il Pisciarello” di proprietà del Sig. Nicolai Guglielmo.
La Valle del Tevere e la zona del Piano visti dall’abitato di Castiglione in TeverinaLa zona del Piano in una foto degli anni ’70
La Zona del Piano di Castiglione che andava dalla Stazione FS al Podere della Poggetta, al confine con la frazione di Case Nuove (Civitella d’Agliano) era popolata da numerose famiglie contadine; le cito alcune che ricordo bene e mi scuso con coloro di cui non ricordo bene i nomi. Partendo dalla zona della Stazione FS di Castiglione avevamo le famiglie Arimondo (o Mondo) Camilli e Ferretti, il grande casolare lungo la strada della Stazione (pensate alla famosa fontana di Ferretti) a quelli del Pianello nel caratteristico grande casolare abitato dalle famiglie Camilli Anacleto e Persieri Ugo e Nello, alla Località Campolungo con la famiglia Salvatori Giulio ed i figli Giovanni, Olindo e Rina, quindi Spinetti Aquilino (padre del mitico Nello Spinetti operaio del Comune); al Centro del Piano sui lati della Strada Provinciale vicino alla Chiesa della Madonna della Neve c’era la famiglia Crocchioni e sull’altro lato della Strada Provinciale avevamo la rinomata famiglia dei Turullucchi (Giorgi Livio e Zeno), più sotto vivevano i Gobbi Umberto e Remo (tutto il podere è stato acquistato successivamente dal Professor Tozzi), più in là il Podere della Parrocchia condotto da Pistonami Pipeo, e quello di Della Marta Gino con la moglie Caterina; scendendo verso la località “Pisciarello” trovavamo: Paggio Nello e Franco, noi Camilli C. ed i Mescolini che conducevano il podere vicino alla vecchia Ferrovia, quindi attraversando il fosso verso Civitella d’Agliano, avevamo il podere Caselli con i fratelli Profili Onelio ed Eto, per salire poi verso le Coste dove trovavamo la famiglia Visciola (Podere La Casa) ed i Salomoni. La maggior parte dei poderi ubicati nel territorio di Castiglione in Teverina erano di proprietà del Conte Vaselli (INEC), del Conte Vannicelli, della famiglia Sensi Tito e Nicolai Gugielmo.
La mietitura a mano
In quel periodo la vita in campagna era caratterizzata da bellissimi momenti di condivisione dei lavori agricoli, di aiuto tra famiglie vicine (si diceva lo scambio dell’opera) per le raccolte dei prodotti agricoli come la mietitura, la carratura e la trebbiatura del grano o la vendemmia dell’uva; durante e dopo le fatiche giornaliere ci si ritrovava intorno alle lunghe tavolate con le donne indaffarate in cucina e gli uomini che mangiavano e bevevano chiacchierando e scambiandosi battute, poi spesso si finiva con balli e canti sull’aia accompagnati dal suono della fisarmonica.
Questa era la vita dei nostri genitori, degli adulti in campagna; i bambini cosa facevano? Come vivevano? Molti assecondavano i grandi nei loro lavori, si imparava presto fin da giovanissimi a lavorare, si diceva che a dodici anni i ragazzi maschi erano già da lavoro nei campi, le ragazze iniziavano a fare le faccende di casa, poi c’era la scuola; dalla campagna si andava a scuola a Castiglione a piedi, perché all’epoca non c’erano le macchine (le avevano solo le famiglie dei benestanti) e nemmeno lo scuolabus.
Io sono stato messo in collegio a Bagnoregio per consentirmi di studiare, e quando durante le vacanze estive tornavo a casa era una gioia, com’era bello vivere all’aria aperta in campagna liberi, sporchi di polvere ed un po’ selvaggi.
Con i miei fratelli al podere Pisciarello
I momenti più belli li passavo con mia cugina Rita Paggio che abitava nel podere distante circa 200 metri dal nostro, con lei che aveva solo un anno più di me, passavo buona parte delle giornate. La fisarmonica era lo strumento musicale più amato ed ambito dai contadini, il suono della fisarmonica portava allegria e spensieratezza, allietava le feste sull’aia ed i tresconi di carnevale che venivano organizzate, a turno, nelle varie case coloniche più spaziose; quelle che ricordo più festose avvenivano dai Turullucchi e dai Visciola dove, a tarda sera, offrivano gustosissimi dolcetti come i bianchini preparati dalle bravissime donne di casa. Questi erano momenti importanti che favorivano le conoscenze e gli approcci tra ragazze e ragazzi. Ricordo le mamme sedute sulle sedie impagliate ai lati della sala dove si ballava che controllavano le loro figlie femmine nella scelta del cavaliere che le invitava a ballare. Anche io chiesi ai miei genitori di imparare a suonare la fisarmonica, loro acconsentirono e ricordo che venne un contadino parente di una mia zia residente a Canale di Orvieto a portarmi una fisarmonica di 80 bassi con cui iniziai ad imparare.
Danze di coppia all’aperto
I miei fecero venire un maestro fisarmonicista da Bagnoregio chiamato “Fernandino” che sapeva anche impagliare le sedie. Il mio corso di fisarmonica durò due anni finché non iniziai la scuola di Ragioneria ad Orvieto e decisi di dedicarmi solo allo studio. In questi due anni ricordo che si intensificò il rapporto di amicizia con la famiglia Visciola del podere “La Casa”. In particolare con i figli Armando, Nevino e Dario a cui piaceva tanto ballare il liscio ed ascoltare il suono della fisarmonica, per questo mi invitavano spesso a casa loro per sentirmi suonare quello che ero riuscito a fare con il metodo di “Ferdandino”.
Nelle nostre campagne era comune l’uso di trasmettere di padre in figlio piccoli trucchi che trasformavano meravigliosamente i piccoli rocchetti in qualcosa di molto più importante (trottole, biciclette, trattori, ecc.). Con alcuni amici vicini ci trovavamo per costruire proprio alcuni giochi con il legno ed altri materiali di riciclo. Piccoli artigiani crescevano.
Le trottole di legno, dette il Pittolo
Io non sono stato molto bravo, infatti ricordo che l’anno del nevone 1956, volevo costruire “uno spazzaneve” ma mentre provavo a tagliare un pezzo di legno con un coltello da cucina, mi sono ferito ad un dito della mano sinistra, mi sono spaventato dal sangue che vidi uscire dalla ferita e dopo averle buscate da mio padre, decisi che la manualità artigiana non era il mio mestiere.
I giochi artigianali di legno
Ricordo invece con molto piacere amici, coetanei che si dilettavano a costruire giochi in legno, erano già dei provetti artigiani, poi ce li mostravano con orgoglio e giocavamo insieme. Un ricordo particolare è del giovane Nello Spinetti, abitava vicino a noi ed era molto bravo a costruire modelli di mezzi agricoli con legno, lamiere ed altri materiali poveri: il trattore, il camion, la trebbiatrice, il carro.
Gli chiesi di costruirmi un camioncino in legno e con le ruote, lui in poco tempo me lo fece ed io mi divertii per diversi giorni a fare trasporti di ogni genere. C’erano poi i ragazzi amici dell’Aiaccia e dintorni come il bravissimo Aldemaro Caprioli, Giorgio Tarabù e Tonino Polegri che si preparavano a diventare provetti artigiani meccanici, falegnami, ecc… loro si adattavano a costruire i motopattini in legno e ruote con cuscinetti a sfera. Una volta che mi trovai ad assistere ad una loro costruzione, avrei voluto acquistarlo con piacere ma i miei genitori non vollero.
Giochi in piazza Maggiore negli anni ’50
Un tempo con poco si sopravviveva alla noia, oggi purtroppo ciò non avviene più, come, a causa dell’aumento del benessere e del traffico non si gioca più nelle strade e i giochi tradizionali continuano a vivere solo nella memoria dei più anziani. Chissà se questo strano periodo dove siamo costretti a vivere in casa, senza lavoro, senza scuola, senza sport, ci insegni a modificare il nostro vivere globalizzato?
Dal racconto: “Castiglione in Teverina”, memoria di un operaio Vaselli degli anni ‘50 di Trigoria (Roma) in trasferta a Castiglione per la straordinaria aratura funicolare Fowler.
Le macchine a vapore Fowler (Favole) durante l’inverno erano state approntate per il nuovo lavoro che avremmo dovuto svolgere a Castiglione in Teverina, vicino ad Orvieto, dove c’era una fattoria sempre del Conte Vaselli da dissodare, per l’impianto di nuovi vigneti. Venne fuori il problema del trasporto di questi due enormi bestioni da oltre duecento quintali. Mio padre si recò presso le Ferrovie dello Stato dove trovò un pianale adatto per poter caricare quelle macchine. Quando venne la primavera si misero in funzione per poterle mettere sui pianali. La difficoltà era di scendere da Trigoria Alta giù per una discesa molto ripida, senza i freni perchè quelle macchine non avevano ne freno nè frizione. Molto lentamente avendo messo la marcia più bassa tutto andò per il meglio. Una volta sui pianali le Ferrovie ci fecero ritrovare le macchine alla stazione di Castiglione in Teverina. …..[Leggi tutto]
Quando l’infanzia era ancora gioco, quando non esistevano playstation e smartphone, c’era un super eroe che rimbalzava ”felice” fra di noi: il pallone!
Si giocava ovunque, ricoperti di sudore e di polvere, dalla mattina alla sera, era il calcio che giocavamo per strada, negli spazi comunali, negli sterrati delle nuove aree urbane. Era la sfida “a scartarella” (non a caso la traduzione letterale di dribbling è proprio “scartare”), un appuntamento quotidiano per noi ragazzini di quegli anni a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80. …..[Leggi tutto]
di Filippo Formica da Milano (Pippo il figlio di Cannara)
C’era..c’era..c’era..sono sicuro che c’era! Era in cucina dentro l’ultimo mobiletto, quello sopra il calorifero, seminascosto sotto una fetta di colomba Pasquale, sotto due confezioni di cioccolato fondente e sotto una busta di caramelle al miele.
E’ più di un’ora che sto pensando e ripensando ma sono sicuro che era lì, l’avevo visto una settimana fa e, alla sua vista, mi era venuto un leggero sorriso che voleva significare che le scorte strategiche per resistere in questi giorni di prigionia le avevo: non posso sbagliare nel ricordare questo particolare perché lui era il migliore, il più buono di tutti. Anche l’aspetto esteriore era accattivante, per non parlare della confezione gialla e a tratti marrone con una scritta talmente attraente che soltanto a leggerla, da lontano, al supermercato puntavi diritto a lui e, senza pensarci due volte, lo prendevi e lo inserivi con soddisfazione nel carrello della spesa. …..[Leggi tutto]
Domenica 23 giugno e sabato 10 agosto presso il MUVIS di Castiglione in Teverina si è svolta la presentazione del libro “Storie di Pallone” con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale. Storie di pallone costituisce il settimo volume della collana “Memorie”.
L’Associazione Castiglionesi nel Mondo ha collaborato con l’Amministrazione Comunale nella redazione del libro nelle persone di Marcello Camilli che ha predisposto la parte letteraria e Marco Luzzi che ha curato la realizzazione e la grafica. L’opera ha ottenuto un buon successo cittadino, molti castiglionesi hanno già ritirato una copia del libro curiosi di leggere storie o vedere foto di loro stessi o dei loro figli in tenuta da pallone.
Alla presentazione ufficiale del 23 giugno è intervenuto il Sindaco Mirco Luzi che ha spiegato i motivi per cui il Comune ha voluto quest’opera; il giornalista Arnaldo Sassi, ex direttore della redazione del Messaggero di Viterbo che ha fatto da conduttore della manifestazione, il sottoscritto in qualità di autore del libro e alcuni ex calciatori della Castiglionese, allenatori, Presidenti e dirigenti della Società sportiva. Un momento particolare e commovente della iniziativa è stato quando sono stati ricordati con affetto e riconoscenza dirigenti e calciatori che ci hanno lasciato prematuramente.
Un interessante testimonianza sulle storie del calcio castiglionese l’ha fornita Don Camillo Gentili, parroco di Castiglione dal 1954. Purtroppo il Reverendo non ha potuto partecipare per impegni parrocchiali improrogabili alle due presentazioni; ha mandato un breve messaggio di saluto e di partecipazione: “Caro Marcello, mi ha fatto veramente piacere ricordare alcuni momenti dell’attività ricreativa promossa dall’Azione Cattolica di Castiglione, in particolare le partite di calcio che organizzavamo presso il Seminario di Bagnoregio dove c’era l’unico Campo sportivo della zona. Penso che il Comune abbia fatto una bella cosa pubblicando questo libro, sono bei ricordi di tanti giovani castiglionesi che si tramanderanno nel tempo. Purtroppo impegni improrogabili mi impediscono di partecipare alla cerimonia di presentazione, spero mi scuserete; porta il mio saluto al Sindaco ed a tutti i partecipanti alla manifestazione”. …..[Leggi tutto]
Durante il suo recente viaggio in Palestina, al seguito della Ong VIS – Volontariato Internazionale per lo Sviluppo, Francesco Chiucchiurlotto si è recato a visitare la tomba di padre Lino Cignelli nell’antico cimitero francescano del Monte Sion in Gerusalemme.