di Marco Luzzi –
Quando l’infanzia era ancora gioco, quando non esistevano playstation e smartphone, c’era un super eroe che rimbalzava ”felice” fra di noi: il pallone!
Si giocava ovunque, ricoperti di sudore e di polvere, dalla mattina alla sera, era il calcio che giocavamo per strada, negli spazi comunali, negli sterrati delle nuove aree urbane. Era la sfida “a scartarella” (non a caso la traduzione letterale di dribbling è proprio “scartare”), un appuntamento quotidiano per noi ragazzini di quegli anni a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80. Quella spasmodica ricerca “dell’uno contro uno”, in spazi sempre più stretti, occupati col passar del tempo da sempre più numerosi amici. Più si andava in crescendo, dal 3 contro 3, al 5 contro 5, al 7 contro 7 e meno era lo spazio e il tempo a disposizione per l’esecuzione del gesto tecnico, generalmente con un muro o un marciapiede come sponda per l’uno-due. Si cadeva ci si rialzava immediatamente e tutto ciò per ore ed ore. Insomma c’era un naturale ed inconsapevole apprendimento della tecnica, delle capacità coordinative e condizionali straordinarie e il tutto in contrapposizione alla realtà odierna dove predomina la figura del “bimbo di appartamento” circondato da computer e playstation.
C’erano sempre due squadre. Fossimo in sei (tre contro tre) in otto, o anche in numero dispari. La conta toccava di solito ai due più bravi. O a chi portava il pallone.
Chi se lo ricorda il pallone? Prima il “Tele”, quello che quando tiravi sembrava una piuma e non prendeva mai la strada giusta. Poi arrivò la versione lusso: il “Super Tele”, un’altra ciofeca pazzesca. Il pallone migliore si chiamava “Super Santos”, nulla però a che vedere col “Tango”. Il Tango era l’imitazione del pallone dei mondiali argentini, quelli del ’78, con l’Italia quarta classificata. Un’altra sfera accettata di buon grado era il “San Siro”, che venne distribuito qualche anno dopo. Ma quello che più ricordo con piacere come fedele compagno, più per il fatto di averlo tanto desiderato che per le sue qualità performanti, fu il mitico pallone di cuoio.
Lo ricevetti in regalo per un evento importante, forse per la prima comunione. Lo trattavo come un oracolo, passandogli continuamente un grasso biancastro sulle cuciture e riservandolo esclusivamente solo ai campi sterrati per mantenerlo più intatto possibile. Quando andavamo al campo sportivo passavo a gonfiarlo all’officina di Sansonetto con l’aria compressa e guai nel tragitto a piedi a fargli sfiorare l’asfalto.
Ma come tutti i primi palloni di cuoio economici che uscivano in quegli anni, anche il mio in poco tempo assunse il triste appellativo di “BISTORNO” (ovale, tradotto dal castiglionese), presagio di abbandono sicuro per un pallone diventato ostico per il ricercato tiro al centimetro.
Le partite non avevano una durata temporale. Generalmente erano al “dieci”, vinceva chi avesse raggiunto il decimo goal. Solitamente erano le mamme che verso le sette di sera mettevano fine alle partite, con le lunghe urlate chiamate dalle finestre. D’inverno era il buio a fermarci, nonostante i tentativi di continuare la partita sotto la fioca luce del neon dei lampioni.
Non servivano campi di calcio in erba curata all’inglese e nemmeno essere schierati in perfetta divisa da calciatore. Per tirare i classici calci al pallone, bastava semplicemente qualche amico per fare le squadre e un bel pallone di gomma e un “campetto”.
Il primo campetto che ricordo era lo spiazzo davanti casa in via Orvietana, dove oggi è la macelleria La Beccheria, davanti al “Palazzo del Sole”, all’epoca un vero covo di ragazzini. Per nostra sfortuna, la domenica pomeriggio il campetto si prestava come parcheggio per le macchine dei giovani che si recavano alla vicina sala da ballo “King” e a noi toccava rimediare sullo sconnesso e fangoso spiazzo sovrastante, dove ora sorge piazza della Pace oppure in via Italia, davanti la casa dei fratelli Alessandro e Stefano Fedeli. Ma lì era più il tempo che si passava a scavalcare la recinzione del giardino di Bruno il fruttivendolo e del dottor De Carolis per recuperare il pallone, che a giocare. Il medico aveva un cane chiamato winsky, un vero incubo per chi doveva entrare nel giardino a recuperare il pallone. In genere uno lo distraeva, fingendo di scavalcare dalla parte opposta del giardino, mentre l’altro saltava dentro a recuperare il pallone.
Sul finire degli anni 70 la zona nord-est di castiglione venne quasi tutta lottizzata subendo un notevole sviluppo urbano e gli sterrati dove sarebbero sorte le nuove palazzine si trasformavano in veri e propri campetti da calcio con tanto di strisce bianche, tracciate con la calce smorzata presa nei cantieri edili della zona.
Quella parte nuova di Castiglione in trasformazione, chiamata “Paterno” (per noi “Muffallanno”, il cognome dell’ultimo contadino che vi era ancora rimasto, per altro mio zio) mi ricordava vagamente i quartieri periferici della Roma pasoliniana, affollati di ragazzini chiassosi e sboccati che rincorrevano un pallone con le scarpe fangose, i cappottini lunghi e i berretti di lana .
Un campetto molto gettonato era lo sterrato dove costruirono la casa i fratelli Bonifazi, Gigetto e Francolino, che essendo stato ricavato da uno scavo, rimaneva chiuso in tre lati, impedendo al pallone di uscire dal campo e andare disperso.
Altro campo da gioco era il lungo spiazzo di via Paterno (davanti casa dei Tafani e dei Perquoti). Qui le sfide duravano interi pomeriggi, spesso si giocava ad eliminazione e se eri nella squadra vincente potevi giocare anche per 3-4 ore consecutive. Qui il grosso inconveniente era il fondo asfaltato, che oltre a procurare serie sbucciature sulle ginocchia, poteva farti far fuori un paio di scarpe in una mezza giornata… e il che voleva dire trascorrere una brutta serata a casa. I bordi delle aiuole che lo costeggiavano erano perfette per la sponda dell’uno-due. Massimino (Massimo Nazzaretto) percorreva l’intero campo dribblando praticamente tutti gli avversari. Nessuno riusciva a togliergli la palla dal piede e ti faceva letteralmente girare la testa se tentavi di fermarlo. Sembrava Maradona nel famoso goal all’Inghilterra nei mondiali dell’86. Poi c’erano i giardinetti e il campo delle scuole, ma qui bisognava stare sempre all’erta dalla guardia municipale, che spesso e volentieri interveniva e ci sequestrava il pallone.
Da più grandicelli, con le biciclette si raggiungeva il campo sportivo dove si organizzavano tornei tra squadre che si erano formate la mattina stessa a scuola.
La campagna acquisti avveniva in genere durante i minuti della ricreazione. Erano sfide di un divertimento unico, nessuno si sentiva di essere un campione e anche la peggiore schiappa veniva ingaggiata pur di arrivare a fare la squadra di undici elementi. Tra quelle polverose sfide nacquero molti soprannomi, ispirati dai campioni calcistici di quegli anni. Alcuni perdurano ancora, tra questi mi tornano in mente: Boniek, Passarella (tutt’ora ufficiale), Kempes (il mio, poi tramutato in Ricciotto), Maldera, Gerets …..
Purtroppo per via delle limitate attrattive che offriva Castiglione in quel periodo, che raggiungevano l’apice solo con l’arrivo delle giostre ad aprile, anche da più grandicelli la partitella a pallone rimaneva spesso l’unico sfogo dei pomeriggi estivi in piazza o al campo sportivo.L’ultima sfida ricordo che fu organizzata nelle ore oziose d’estate al bar di Remo.
Era circa la metà degli anni ’80 (forse l’86-87), l’ultima prima di sparpagliarci un po’ tutti prima del servizio militare, l’università e altre destinazioni lavorative. Al termine della partita ci prendemmo tutti a gavettoni e la sera grande spaghettata a casa di Bardisserra. Ricordavo che quel giorno Marzio scattò delle foto, a distanza di 30 anni le ha cercate e sono riuscite fuori… eccoci, siamo noi, gagliardissimi, bei ricordi e un pò di malinconia….Regà, ma che dite!… ma la volevo rifà ‘na partitella a pallone?

Acccosciati da sinistra: Massimo Persieri, Gianluca Formica, Marco Luzzi, Moreno Basili, Angelo Cicala, Mirco Nerbano, Mirco Luzi

Acccosciati da sinistra: Alessandro Perinelli, Marco Nocentini, Fabrizio Grassini, Maurizio Fanelli. Il bambino è Leonardo Paggio.

Accosciati da sinistra: Mirco Luzi, Emiliano Corsi, Francesco Vera, Simone Rossi, Giorgio Bianchi, Carlo Damiani