UNA PICCOLA STORIA E TANTI RICORDI

di Filippo Formica (detto Pippo il figlio di Cannara), da Milano..

Parlando dei tempi passati con alcuni amici Castiglionesi mi sono riaffiorati alla memoria tanti bei ricordi di vita vissuta a Castiglione e di esperienze importanti avute con alcuni paesani dei quali conservo un bel ricordo.
Marco Luzzi mi ha suggerito di scrivere e condividere queste esperienze con chi avrà la bontà e la voglia di leggerle in questo racconto. Con questo breve scritto cercherò di raccontare parte della mia adolescenza  vissuta a Castiglione e le persone che, man mano nominerò, hanno contribuito ad arricchire il mio bagaglio di esperienze, verso di loro sono debitore e riconoscente per quello che ho appreso dai loro insegnamenti. Quanto tempo è passato. Penso a quante fatiche e sforzi dovevamo fare per crescere e ”diventare grandi”, il più delle volte le iniziative e le decisioni che riguardavano il nostro futuro le  prendevamo da soli senza l’aiuto di nessuno, oggi invece è cambiato il rapporto tra genitori e figli e in apparenza  sembra tutto più semplice.
Ai lettori più giovani consiglio di provare con un po’ di fantasia ad immaginare come siamo vissuti in quel periodo ed in particolare pensando al contesto e all’età che avevamo.Molti dei bambini Castiglionesi nati nell’immediato dopoguerra a partire dall’età di 6 anni durante il periodo estivo, quando le scuole erano chiuse per le vacanze, erano impegnati in attività lavorative o  aiutando i genitori nel lavoro dei campi oppure andando nelle botteghe dei vari artigiani del paese.
In quel periodo gli artigiani erano veramente tanti ed alcuni erano anche contenti se qualche ragazzino manifestava di voler imparare il mestiere.Ai nostri genitori il fatto che i figli andassero a lavorare non dispiaceva affatto anzi ne erano contenti  perché così sapevano dove stavamo e che eravamo impegnati ma, la cosa più importante era che non andavamo nei pericoli e soprattutto che avevamo l’opportunità d’imparare un mestiere. In effetti molti di quei ragazzi hanno continuato a praticare quel primo mestiere imparato quasi per gioco facendolo diventare il lavoro della loro vita.

artigiani nel borgo (foto 1960)

La maggior parte di noi si recava volentieri dagli artigiani, spesso davanti alle loro botteghe giocavamo, li consideravamo degli amici perché nonostante tutto il nostro vociare nessuno di loro si è mai permesso di richiamarci all’ordine oppure di mandarci via perché facevamo troppo rumore o davamo fastidio.
Conoscevamo molto bene queste botteghe, sapevamo come erano i locali all’interno perché  molti nostri amici erano figli di questi artigiani e quindi capitava spesso di entrarci.
Eravamo piccoli e tutto quello che facevamo veniva quasi sempre considerato un gioco e gli artigiani da parte loro non pretendevano da noi un lavoro vero e proprio, erano come dei padri di famiglia, non c’era sfruttamento minorile come si usa dire oggi, invece per i più grandicelli il lavoro di bottega era un vero e proprio apprendistato al lavoro.
Per noi questa convivenza con gli artigiani era importante perché potevamo ascoltare i discorsi che facevano gli adulti, vedevamo giorno dopo giorno prendere forma i loro lavori, ci divertivamo con le  battute che facevano e la maggior parte di loro erano delle persone sagge, di  buon cuore e soprattutto spiritose e noi cominciavamo a prendere dimestichezza con dei piccolissimi lavoretti che ci responsabilizzavano.
Molti di questi artigiani facevano parte della banda musicale del paese e qualche volta è capitato che ognuno suonasse in bottega il proprio strumento per mantenersi in allenamento.

Ricordo che ero molto piccolo ed ero affascinato dal lavoro del fabbro Carlino che aveva l’officina giù alla “Aiaccia” sotto la casa di Giusti. In estate lavorava sempre fuori dall’officina ed io guardavo con molta attenzione e curiosità tutti i movimenti che faceva nel lavorare il ferro. Carlino era anche  maniscalco e quando ferrava i cavalli o i muli  io ed altri bambini  passavamo delle giornate intere a guardarlo e pensavamo come poteva essere che gli animali non sentissero dolore quando venivano ferrati.
Avevo circa 6-7 anni  quando ho iniziato, per gioco, il mio primo”piccolo impegno lavorativo”, saltuariamente andavo con altri amici qualche ora al giorno dal calzolaio Barbanera Guerrino (il nonno di Nevino) che aveva la bottega in Piazza San Giovanni che davanti aveva uno piccolo spiazzo dove noi bambini ci sedevamo per terra. A volte ci chiamava Barbanera perché voleva un po’ di compagnia e se ne avevamo voglia per farci passare il tempo ci dava un lavoro da svolgere che consisteva nel raddrizzare  i chiodi storti che recuperava dalle scarpe vecchie.

La bottega di Guerrino il calzolaio in piazza San Giovanni

Per noi usare il martello era un gran divertimento, le prime volte le martellate oltre che sui chiodi ce le davamo anche sulle dita, poi con l’esperienza e facendo attenzione questo non succedeva più. Barbanera ci conosceva tutti e ci voleva  bene e mentre raddrizzavamo i chiodi  ci raccontava tante storie che a noi piaceva ascoltare.
A noi bambini piaceva molto stare sul davanti della sua bottega perché si trovava in Piazza San Giovanni e lì per noi era come stare in centro città dove c’era la base di partenza per tutte le nostre avventure.
I più assidui a fare questo lavoro eravamo io e Alvaro Giorgi e come paghetta Barbanera a fine settimana ci dava un pomodoro a testa che mangiavamo facendoci una fetta di pane e pomodoro. A quel tempo il mangiare non si buttava via e gli avanzi non esistevano.

Mio fratello Silvano lavorava nell’officina di Vittorio Todini, (il meccanico è ad oggi il suo lavoro) ed anch’io volevo seguire le sue orme. Durante le vacanze estive chiesi a Fabbro Pietro Mazzolini che aveva  l’officina giù alla curva di S. Lucia se potevo frequentare la sua officina, anche Pietro come gli altri artigiani ci conosceva tutti e sorridendo mi fece alcune domande e poi mi disse che potevo  andare.
Con tanto entusiasmo la mattina dopo mi presentai in officina, guardai come erano sistemate le varie attrezzature, misi a posto qualche attrezzo e poi osservai attentamente Pietro che con una mazza batteva sull’incudine un pezzo di ferro arroventato, lo guardavo colpire con la mazza quel ferro che dopo ogni colpo prendeva la forma che lui voleva ed ai miei occhi era un qualcosa di eccezionale.

Il pomeriggio sempre col sorriso e molta calma mi diete i primi insegnamenti sulla saldatura dicendomi che potevo consumare gli elettrodi che volevo e per imparare dovevo utilizzare il ferro di scarto che era a terra in  un angolo dell’officina. Dopo aver ascoltato i suoi consigli e con l’attrezzatura necessaria maschera compresa incominciai a saldare, all’inizio non riuscivo poi piano piano dopo circa un’ora le saldature iniziarono a venirmi bene. Pietro ogni tanto mi dava un’occhiata incoraggiandomi e correggendomi negli errori. Andai a casa contento perché  avevo imparato qualcosa ma i guai e i dolori arrivarono poco prima di cena, avevo gli occhi così rossi che sembravo un diavolo, mi bruciavano procurandomi un dolore atroce, passai tutta la notte con le patate sugli occhi (a detta degli esperti di allora le fette di patata rinfrescavano le irritazioni).

L’officina di Pietro Mazzolini

Dopo qualche giorno con gli occhi guariti tornai in officina, però ero preoccupato e  consapevole che dovevo stare molto attento a quello che facevo.
Nella tarda mattinata Pietro fece un lavoro utilizzando la mola da banco, ero incuriosito dalle scintille che faceva la ruota smeriglio, nel pomeriggio  con molta prudenza  provai anch’io a limare un pezzo di ferro che all’improvviso mi sfuggi dalle mani procurandomi una ferita ad una mano.

Andai a casa e decisi di non tornare più in officina, capii che quello non era un lavoro per me, inoltre mi infastidivano le mani sporche e arrivai alla conclusione che non mi piaceva proprio fare un lavoro dove le mani si sporcavano.
Quando lo dissi a Pietro, lui sempre con il sorriso, mi rispose di non preoccuparmi e se qualche volta fossi passato da quelle parti di andarlo pure a trovare.
Non nascondo che quello che ho imparato in quel solo giorno di saldatura mi è tornato utile più avanti negli anni.
Pietro Mazzolini è stato un brav’uomo, sensibile e disponibile.

Ormai adulto quando tornavo al paesello e lo incontravo facevamo delle belle chiacchierate e lui s’informava sempre sull’andamento del mio lavoro e della mia carriera.

Qualche tempo dopo l’esperienza meccanica passai davanti alla falegnameria di Ginola che mi conosceva bene perché quando abitava al borgo eravamo vicini di casa. Mi fermai a guardarlo mentre aggiustava la ruota di un carro, nel girarsi mi vide e mi chiese se potevo tenergli il cerchio ed io lo aiutai volentieri.
Pensai subito che quella poteva essere un’altra esperienza lavorativa così mentre chiacchieravamo gli domandai se potevo andare da lui per imparare il suo mestiere e come Pietro si rese disponibile.

La falegnameria di Ginola

Anche Ginola era un bravo artigiano, una persona sempre allegra e disponibile che cercava di capirti ed aiutarti e quando mi spiegava come dovevo fare un determinato lavoro lo faceva senza perdere mai la pazienza. Era un grand’uomo.
A me piaceva vederlo lavorare: calmo, sigaretta in bocca, matita da falegname rossa sull’orecchio, insomma aveva un modo tutto suo di proporsi. Era bello veder creare da quelle mani che a me sembravano tanto grandi e grosse quei gioielli di falegnameria, era qualcosa di veramente bello e unico come certi pezzi da lui realizzati.
Iniziava prendendo una grande asse di legno che piano piano (io seguivo con attenzione le varie fasi della lavorazione) trasformava, a secondo della richiesta, in una persiana, o una finestra, o un tavolo, o un armadio ecc. ecc. Ricordo molto bene il rituale che precedeva l’inizio di ogni nuovo lavoro: prendeva dal deposito dietro la sega elettrica il pezzo di legno che secondo lui poteva andar bene e prima di iniziare a lavorarlo lo osservava attentamente mentre fumava una sigaretta, si concentrava e da come guardava quel pezzo di legno dava l’impressione che lo stesse modellando nella sua mente poi con decisione prendeva le misure ed iniziava la lavorazione.
La bottega, oltre agli attrezzi da lavoro, era piena di appunti, numeri e calcoli che Ginola faceva prima d’iniziare la lavorazione di un legno ma aveva il brutto vizio di scrivere queste misurazioni dove capitava. Infatti tutt’intorno c’erano decine di foglietti attaccati sui muri perché lui scriveva quei numeri sulla prima cosa che gli capitava fra le mani che poteva essere un pezzo di legno, i pacchetti delle sigarette, la carta che aveva contenuto i cibi della spesa insomma qualsiasi cosa che fosse scrivibile.
La bottega non era grande ma c’era sempre un buon odore di legno specialmente quando lo lavorava con la pialla.

A volte gli commissionavano anche le botti per il vino e se doveva marchiarle a fuoco con le iniziali del committente accendeva, utilizzando la segatura, il fuoco che sarebbe servito per arroventare le lettere in ferro del marchio e nel frattempo sotto la segatura calda  metteva sempre una decina di patate che quando erano cotte erano buonissime e che poi mangiavamo invitando anche il cliente che si trovava in bottega o un passante, i vicini, il meccanico Vittorio Todini e a volte Marino Perquoti che aveva il mulino di fronte a lui.
Nella bottega lavorava anche Ermindo Principe che era più grande di me ed era già un “falegname finito” ricordo che era molto bravo come artigiano ed anche come persona. Nello stesso mio periodo  frequentava la bottega anche Gianni Paggio, un mio coetaneo, certo eravamo piccoli entrambi ma molto più maturi dell’età che avevamo e stare da Ginola ci piaceva perché era una persona straordinaria, sempre allegra che faceva continuamente scherzi a tutti e noi ci divertivamo, con lui ho trascorso due estati in allegria.
Anche questa è stata un’esperienza utile infatti conservo ancora dei piccoli oggetti, da me fatti grazie ai suoi insegnamenti: un portagioie fatto con gli incastri a coda di rondine, scatole di varie grandezze e tante “stampelle” portabiti, alcuni di questi oggetti sono ancora molto belli.
Fare il falegname mi piaceva perché era un lavoro pulito, artistico, creativo e di precisione e negli anni questa mia piccola esperienza mi è servita per effettuare qualche piccolo intervento casalingo.

Negli anni a seguire ho mantenuto con Ginola un ottimo rapporto di amicizia e di rispetto ed ogni volta che tornavo al paese andavo trovarlo per fare quattro chiacchiere, ricordo che si è sempre interessato chiedendomi di come mi andassero le cose della vita continuando a darmi consigli su tutto. Mi piaceva intrattenermi anche con il suo babbo Arduino che mi conosceva dalla nascita, con lui facevo delle lunghe chiacchierate seduti o all’ombra dei pini vicino al consorzio o sotto “l’alberetti” in piazza.

Il vecchio forno di Davide Paganelli

All’età di quattordici anni e sempre in estate iniziai a frequentare il forno a legna di Davide Paganelli (il nonno di Bruno) e nel tempo come compagni di lavoro si sono susseguiti: Calabresi Angelo, Picchio Ettore e mi sembra anche Pituarre. Il locale che conteneva il  forno a legna si trovava all’inizio della scalinata del borgo, in fondo al vicoletto vicino alla casa di Stopponi, era buio e molto caldo, a terra c’era tanta legna accatastata in modo disordinato ed un continuo via vai di gente. Davide che era anziano brontolava in continuazione di tutto e di tutti insomma non era mai contento di niente.
Certo era un lavoro ben diverso da quelli che avevo già fatto e ad esser sincero all’inizio non mi entusiasmava però mi piaceva molto il profumo del pane e della pizza appena sfornati.
Con il tempo cominciai a capire Davide e conoscendolo meglio riuscii anche a divertirmi con lui, in particolare con la Nella e Adalgiso ed anche se un po’ meno con Luciano, il papà di Bruno che  facendo il postino frequentava il forno soltanto al pomeriggio quando io tornavo a casa perché avevo terminato il lavoro, comunque avevo un ottimo rapporto anche con lui. Dopo qualche settimana che lavoravo lì ci trasferimmo al forno nuovo (i locali dell’attuale Borgovejo) e la situazione migliorò molto, si lavorava meglio ed in allegria. Questo lavoro iniziava a piacermi, dopo qualche mese ero già in grado di gestire tutto il procedimento della lavorazione sia del pane che delle pizze.

Avevo quattordici anni e dopo le mie piccole e brevi esperienze lavorative mi convinsi sempre più che  ero portato a fare un lavoro pulito e quello del fornaio lo era, capii anche che mi piaceva molto stare a contatto con la gente e soprattutto avevo un grande privilegio, quando avevo fame (e questo capitava spesso data l’età) al forno non c’erano problemi di quantità o di scelta: la mattina la pizza, il pomeriggio qualche maritozzo, il pane ovviamente non mancava mai e la pancia era sempre piena e considerando la situazione a quel tempo, questa era una fortuna non da poco.
Ricordo che quando avevamo troppo lavoro, veniva ad aiutarci l’ Annunziata la moglie del barbiere Del Pomo. Io sapevo gli orari in cui lei arrivava al forno ed una volta decisi di farle uno scherzo “esagerato”. Dietro al forno nel locale del bruciatore c’erano dei fili che servivano per stendere ad asciugare i teli di lino e quella mattina pensai di farmi trovare appeso ai fili con una corda legata intorno al collo e gli occhi sbarrati.
Quando la Nunziata entrò dal retro mi vide in quelle condizioni pensando che mi fossi impiccato, si spaventò moltissimo iniziò ad urlare disperata chiedendo aiuto e svegliando tutti i vicini. Lo spavento fu così grande che mancò poco che le venisse un infarto. Per un mese non mi parlò. Io avevo capito la gravità dello scherzo e mi ero anche spaventato moltissimo, feci di tutto per farmi perdonare ed alla fine ci riuscii  “arruffianandomi” un po’ alla fine con un bacino facemmo pace con la promessa da parte mia che non l’avrei fatta spaventare mai più.

Ricordo che di tanto in tanto verso le quattro del mattino veniva a scaldarsi Vincenzo detto Negus, arrivava dal fiume Tevere dove aveva passato la notte a pescare. Entrava che era bagnato fradicio, lo aiutavo a riprendersi offrendogli delle bevande calde: caffè o thè con un bel pezzo di pizza, dopo essersi rifocillato si addormentava un’oretta in cima alle scale e quando si svegliava tornava a casa.

il forno di Adalgiso Paganelli

In estate verso le quattro o le cinque del mattino, nei momenti di pausa, io e Civilino che era l’allievo del fornaio Antonio, ci davamo appuntamento in piazza sotto gli “alberetti” perché a quell’ora l’aria era fresca e piacevole chiacchieravamo per circa venti minuti e poi ognuno tornava al proprio forno.
Ero proprio contento perché mi rendevo conto di aver imparato un bel mestiere.
Anche qui ho trovato delle persone molto serie e che per me sono state importanti. L’Elena la consideravo come una seconda mamma.  Adalgiso invece è stato tra le persone più importanti della mia vita, con me si è sempre comportato come un fratello maggiore ed io per questo gli devo molta gratitudine per gli insegnamenti ricevuti sia sul piano umano che personale, cose molto importanti per un ragazzo dai quattordici anni in poi.

Credo che il lavoro di fornaio sarebbe potuto diventare tranquillamente il lavoro della mia vita perché lo facevo con passione e quando mi sono trovato a dover fare un’altra scelta lavorativa devo ammettere che un po’ mi è dispiaciuto non poter continuare. Sicuramente i Castiglionesi quelli di una certa età che venivano a comprare il pane al forno, si ricorderanno di me perché è lì che mi hanno conosciuto.
Nel tempo ho mantenuto dei buonissimi rapporti con tutta la famiglia Paganelli ed ogni volta che tornavo al paese andavo sempre al forno per un saluto ed anche per mangiare una porzione di buona pizza che mi veniva sempre offerta.

Durante l’anno scolastico, saltuariamente, svolgevo dei lavoretti.  Nei pomeriggi  della stagione invernale ed a volte anche il sabato aiutavo al mobilificio Franco Mocetti. Erano gli anni del “boom economico” il 1964/65 e Mocetti era quasi agli inizi  della sua attività, lavorava molto e di conseguenza era sempre di fretta.
Ricordo che in quel periodo la maggior parte delle famiglie rinnovò l’arredamento di casa acquistando da lui, in particolare, le cucine della Salvarani dette “americane” e buttando via  il vecchio mobilio di generazioni precedenti che oggi gli amatori dei “mobili antichi” pur di averne uno lo pagherebbero anche a peso d’oro.

Il vecchio negozio di Mocetti in via del Rivellino

La mia collaborazione con Mocetti era un vero divertimento: lui sempre precisino e indaffarato io invece con la mia allegria sdrammatizzavo sempre tutto. Il mio compito era quello di spolverare i mobili d’esposizione, aiutarlo a caricare sul camioncino il mobilio nuovo che doveva essere consegnato  il giorno dopo e se qualche volta lui doveva assentarsi io dovevo occuparmi del suo primo negozio al “rivellino” fissando gli appuntamenti ai clienti che venivano in negozio durante la sua assenza.
Con questo lavoro ho imparato solo a pulire bene i mobili, i vetri delle specchiere e dei tavoli. Mocetti mi diceva quello che dovevo fare e poi usciva per svolgere i propri lavori, quando tornava in negozio per controllare se avevo fatto bene il mio lavoro si metteva in controluce e verificava se le specchiere ed i tavoli in vetro erano stati puliti bene. A volte facevo apposta a non pulirli perfettamente perché mi divertiva questo suo modo di controllare ma soprattutto per la discussione che iniziava tra di noi perché io insistevo ribattendo che non vedevo lo sporco che lui vedeva.Anche con Mocetti mi sono divertito tanto, ricordo gli scherzi che gli facevo quando dovevamo caricare sul camioncino i mobili nuovi che dovevano essere consegnati il giorno dopo e mentre trasportavamo il materiale più fragile tipo le specchiere oppure il cristallo che copriva i tavoli all’improvviso gli gridavo, fingendo, che non ce la facevo più per il troppo peso e che la specchiera mi stava cadendo, allora lui  preoccupato si fermava subito per farmi riposare e prima di ripartire si accertava che mi fossero ritornate le forze.

Mocetti era e credo che lo sia tutt’ora molto originale anche nell’abbigliamento da lavoro. In testa portava sempre un cappello fatto con la carta come quello che usano i muratori, portava sempre il grembiule e sopratutto era sempre di corsa. Anche di Mocetti ho il ricordo di una persona valida e simpatica da prendere come esempio per il suo grande impegno e professionalità nel lavoro, era e credo che lo sia tutt’ora una persona affidabile e instancabile: un grande lavoratore.

L’INCONTRO DECISIVO (Quando la vita cambia in una frazione di secondo)

Era il mese di Marzo del 1967 mentre attraversavo la piazza vidi camminare, vicino al negozio d’abbigliamento di Tafani, Mancini Venanzio figlio di Manone che andava in direzione “rivellino” lo chiamai perché era da molto tempo che non lo vedevo in paese.

Con Venanzio eravamo amici, lo consideravo un ragazzo molto intelligente e sveglio, dopo i primi convenevoli mi disse che non era più in paese perché si era arruolato nell’Esercito come Allievo Sottufficiale, si era specializzato sui radar che guidavano i missili, che aveva il grado di Sergente e  guadagnava 68 mila lire al mese e la vita militare gli piaceva.

Io non capivo bene che tipo di lavoro fosse allora lui per essere più chiaro mi domandò: “Ti ricordi quando andavamo a scuola a Orvieto e vedevamo i soldati che marciavano?” gli risposi di sì. Continuò a raccontarmi che ora lui aveva lo stesso grado di quelli che comandavano, che non era vincolato a rimanere per sempre nell’Esercito perché se questo lavoro non gli fosse più piaciuto, dopo tre anni  poteva congedarsi e questo periodo gli veniva considerato come se avesse fatto anticipatamente il servizio militare obbligatorio.

Questa cosa mi incuriosì molto e gli chiesi ulteriori chiarimenti e lui mi chiese che se ero d’accordo e se m’interessava avrebbe provveduto lui stesso a presentare la mia domanda di arruolamento. Io fui d’accordo.
La sera stessa si presentò a casa mia con i moduli della domanda da presentare, in parte già compilati, per farli firmare al mio babbo perché io ero ancora minorenne e poi ci disse che avrebbe pensato lui a presentare i vari incartamenti e grazie a questo suo  interessamento gli sarò grato per tutta la vita.

Il 10 Settembre 1967 all’età di 17 anni mi ritrovai arruolato alla scuola Sottufficiali di Viterbo con assegnata la specializzazione di “Tecnico Operatore per Ponti Radio” probabilmente perché avevo già conseguito la specializzazione di radiotecnico.

I primi giorni di vita militare a livello psicologico furono i più importanti. Ero tra i più giovani come età e mi trovavo in un ambiente completamente nuovo assieme a ragazzi che provenivano da altre regioni d’Italia, c’erano alcuni che si esprimevano soltanto in dialetto ed a volte mi era difficile comprendere quello che dicevano.

Trascorsi i primi tre giorni circa la metà degli allievi se ne tornò a casa e la maggior parte di questi  “scappò” letteralmente dopo essere entrato dal barbiere per il taglio dei capelli. In quegli anni per i ragazzi andavano di moda i capelli lunghi e venivano chiamati  “i capelloni”. Quindi nel vedere i barbieri che tagliavano i capelli quasi a zero utilizzando la macchinetta come quella che usava il nostro Del Pomo, non resistettero a tale sacrificio e tornarono subito a casa. Altri invece se ne andarono  trovando la scusa che il mangiare della caserma non era buono. Constatai che i ragazzi che avevano deciso di tornare a casa provenivano quasi tutti dalle città e pensai che erano viziati, io invece dopo una settimana mi ero già ben inserito e mi ero fatto molti amici.

La vita ordinata e disciplinata mi piaceva molto, la sveglia alle 6,30 del mattino per me non era un grosso sacrificio dato che a casa ero abituato a svegliarmi alle 3,30 del mattino che era l’orario d’ inizio del lavoro al forno.Io a differenza di altri, ho sempre mangiato bene trovando tutto buonissimo. La mattina a colazione si alternavano biscotti, brioches, marmellata, cioccolato, caffè, caffellatte, thé e cacao. A pranzo c’era la possibilità di scegliere due o tre primi, altrettanti secondi, contorno, frutta ed a volte c’era anche il dolce ed il cordiale (cognac).
La domenica era ancora meglio perché veniva servito un pranzo speciale. Credo che nel 1967 tutto quel ben di dio non ci fosse nelle case dei Castiglionesi. Pensandoci bene, fin da piccolo, riguardo al mangiare ho sempre avuto le idee molto chiare: prima il fornaio e poi il militare che mi forniva tutti i giorni pasti completi e caldi e questo privilegio non era da tutti.
Stare a Viterbo nei primi sette mesi era stato per me un grande vantaggio perché quasi tutte le domeniche potevo andare a casa grazie a mio cognato Franco Sbuglia che mi veniva a prendere con la sua bella “topolino”.

Baldisserra Nando e il barbiere Del Pomo erano i miei più grandi sostenitori, mi hanno sempre incoraggiato a continuare nella carriera militare perché secondo loro avevo scelto un “mestiere” d’oro. Fernando mi diceva sempre che non esisteva nessun altro lavoro dove: “Ti pagano,ti vestono, ti calzano e ti danno da magnà tutto gratis”.
Del Pomo mi consigliava sempre di sposarmi con un’insegnante perché con due stipendi dello Stato avrei fatto sicuramente una vita tranquilla ed inoltre mi diceva: “…..c’é il vantaggio che gli insegnanti lavorano mezza giornata e fanno 4 mesi di vacanza!”.
Sono convinto che le precedenti esperienze lavorative, anche se brevi, hanno contribuito a farmi capire che quello era un buon impiego, iniziava la mia vera professione: un lavoro particolare che richiedeva un grande impegno e che mi avrebbe dato molte soddisfazioni.
Ormai sono in pensione da molti anni e a tutt’oggi sono in contatto con i miei ex colleghi (che considero fratelli), moltissimi superiori ed ex militari di leva.
Quando decisi di scegliere questa professione mia mamma Annunziata ne fu molto contenta, ricordo che lei già da bambino mi diceva che se volevo star bene nella vita dovevo trovarmi un lavoro con la “cravatta”.(Queste poche parole ci fanno capire l’esperienza e la filosofia di vita dei nostri vecchi).
Dal 10 Settembre 1967 sono “emigrato” da Castiglione e, nonostante siano trascorsi 44 anni da quando ho lasciato il paese mi sento di far parte ancora a pieno titolo della comunità residente.Negli anni sono sempre tornato per qualche giorno al paese: prima perché andavo a trovare i miei genitori finché sono stati in vita ora le mie due sorelle Fernanda e Franca e questo mi ha consentito di mantenere le amicizie con i paesani e sopratutto di rigenerare il mio spirito.
Posso fare le vacanze nel posto più bello del mondo però qualche giorno lo devo dedicare al: “ mio paesello che a me sembra tanto bello!”.
Per correttezza voglio esprimere gratitudine nei confronti della città di Milano che mi ha adottato dal 1968, città che mi ha fatto incontrare la persona che nel 1974 ho felicemente sposato e dove sono nati i miei tre figli, città generosa ed importante per me e la mia famiglia.

Filippo Formica

9 risposte a "UNA PICCOLA STORIA E TANTI RICORDI"

  1. Marcello Camilli 7 giugno 2011 / 06:17

    Caro Filippo, stamattina come faccio solitamente, dopo aver fatto colazione ho l’abitudine di aprire il pc per vedere le novità dei giornali e soprattutto degli amici Castiglionesi su facebook; ho subito individuato questo tuo racconto, di cui, sia tu che Marco mi avevate anticipato l’uscita prossima. Devo dirti che l’ho letto “tutto d’un fiato” come si suol dire, perchè hai un modo di scrivere molto scorrevole ed anche molto “rappresentativo”, sembra di vedere contemporaneamente le immagini dei luoghi e delle persone, un documentario. Complimenti!
    Il contenuto poi è fantastico, storie vere, personaggi e luoghi di altri tempi, una vera scuola di vita! Mia moglie che si è appassionata a leggerlo insieme a me ha fatto questa affermazione: QUESTE STORIE ANDREBBERO PUBBLICATE SUI LIBRI DI SCUOLA A LIVELLO NAZIONALE! Penso che questa sua frase detta veramente col cuore basterebbe per aprire una riflessione sulla società di oggi in particolare quella dei giovani, delle famiglie e della scuola.
    Concludo con un flash simpatico che ho avuto mentre leggevo la tua storia: alcuni momenti mi è sembrato di sentire Adriano Celentano, il suo modo di dire le cose… forse perchè usate entrambi spesso ….ed anche lui era bravo… ed anche Ginola mi ha insegnato molte cose… Poi vivendo 44 anni a Milano un certo slang l’hai sicuramente acquisito!
    Complimenti di nuovo e grazie per questo dono di storia castiglionese. Un abbraccio!

  2. Marco Luzzi 7 giugno 2011 / 13:42

    Immergersi in questo bel racconto di Filippo è come risvegliarsi una mattina a Castiglione di tanti anni fa e rivedere le atmosfere, i protagonisti, sentire il buon profumo del forno di Adalgiso e il rumore della sega di Ginola, rivedere gli sguardi e i volti delle tante persone che oggi non si incontrano più, con la loro semplicità e la loro pacatezza.
    Complimenti ancora a Filippo per la sua straordinaria capacità di raccontare i suoi ricordi, nei quali trapela sempre il suo profondo rispetto per questo luogo dove giustamente si sente ancora di appartenere.
    Propongo di dare a Filippo il PREMIO AMARCORD!!

  3. patrizia 7 giugno 2011 / 14:25

    molto bello….è vero..sembra di ripercorrere i vicoli del borgo e sentire ancora l’odore del pane che esce dal forno di Adalgiso……che scarpinate che si facevano allora…..la nonna mi mandava a prendere il pane al forno ed il latte laggiù e di casa si stava già su al consorzio 🙂 e quando andavamo in piscina giù alla Pavesi a piedi in estate…..ne vogliamo parlare???????

  4. sergio volentieri 7 giugno 2011 / 15:28

    Pippo Pippo PippoPippooooooooooooooooooooooooo quanti ricordi , quanto tempo è passato , l’importante è ritrovarsi .Complimenti per il racconto ci hai ricordato molti ns.compaesani che erano veramente ” Artisti “. Un saluto !!!!!!!

  5. Roberta Caprioli 7 giugno 2011 / 20:59

    ciao Filippo: leggerti è sempre un’esperienza emozionante. Sono d’accordo con Marco per il premio AMARCORD: ti spetta a piena titolo!
    io sono una Castiglionese “di ritorno” perchè sono andata via da lì che ero troppo piccola e troppo poco tempo vi ho vissuto: i tuoi racconti mi aiutano a conoscere meglio il passato di un luogo che comunque sento mio e che cito sempre quando mi chiedono: “di dove sei?”.
    Grazie Filippo perchè condividi i tuoi ricordi con tutti noi.
    Un bacio!
    Roberta Caprioli

  6. Vincenzo(Pino) 8 giugno 2011 / 14:31

    Carissimo collega Filippo ho letto con molto interesse il tuo racconto. Credimi per un attimo ho rivussuto la mia vita.
    Anchio ho frequentato, nei periodi di vacanza scolastica, alcuni artigiani del mio paesello (San Biagio Platani AG)per imparare un mestiere.
    Tra questi : il falegname e il barbiere .Ricordo che mio padre mi dicev a sempre “impara l’arte e mettila da parte”.
    Pertanto ti faccio i miei complimenti per questo tuo bellissimo racconto e per aver considerato fratelli i tuoi colleghi.
    Ciao e un saluto a tutto il paese di Castiglione in Teverina, che tramite le descrizioni di Filippo conosco da 37 anni.
    Complimenti ancora .
    Un caloroso abbraccio.
    Vincenzino (Pino)Spicola

  7. marcello corsi 1 luglio 2011 / 14:07

    pienamente d’accordo per il premio AMARCORD a Filippo che riesce veramente a farti sentire gli odori dei luoghi che descrive e vedi anche le persone che si muovono in paese negli stessi momenti.E’ merito del tuo animo caro Filippo, della tua sana e nobile umiltà e degli insegnamenti dei nostri genitori che allora non avevano tante “fregne” per la testa. Ti aspetto sempre dove sai Marcello

  8. Francesco Mundo 8 novembre 2013 / 21:29

    Complimenti per il bel racconto autobiografico. Racconto di vita vera e sana. Nulla di più unisce le persone come il vivere in situazioni di disagio, condividere rischi e paure, sapere che la tua sicurezza dipende dal tuo compagno e viceversa. Un fraterno saluto e tanta stima.

  9. daniele rossi 4 gennaio 2017 / 06:07

    Signor Filippo ho letto il suo racconto con grande interesse. Le sensazioni e le speranze di un bambino che cerca la sua strada, che la trova fuori dal paese ma che rimane con il cuore da dove e’ partito e’ molto bello. Io sono un po’ piu’ giovane ma i luoghi che lei ha ben descritto riesco ad immaginarli e a viverli grazie alle sue parole. Grazie

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