di Francesco Chiucchiurlotto dal racconto di Vittorio Nicolai

I castiglionesi una volta avevano buona dimestichezza con l’acqua, almeno con quella che c’era prima che venissero a nord la diga di Corbara ed il conseguente bacino idrico ed a sud l’oasi d’Alviano dietro lo sbarramento ENEL, a cambiare paesaggio e clima.
Allora c’era il fiume Tevere che scorreva in fondo alla valle ed il fosso di Vionica che iniziava sorgivo per poi alimentarsi di vari rivoli sotto le “Coste”.
Ci si andava per fare il bagno d’estate quando l’afa toglieva il respiro o per pescare carpe, tinche, anguille o ranocchie al fosso.
Era un rapporto con un paesaggio ed una natura particolari, che con il tempo poi si è perduto, dopo che draghe avevano spogliato le rive ed il letto del Tevere dei ciottoli levigati che rumoreggiavano rotolando; quando le chiuse si aprivano a comando minacciando gli avventori lungo le sue sponde; quando l’inquinamento delle acque fece sparire quel buon odore di fanghiglia sabbiosa e canne che si avvertiva a distanza.
A Pasquetta non c’era famiglia che non andasse alla barca o al Fiumarello a fare merenda con la pizza tradizionale, lombetto, capocollo e cioccolato dell’uovo pasquale.
Ci fù anche chi ci morì nelle sue acque, lasciando nell’intero paese un rimpianto lungo e doloroso perché l’amico fiume si era rivelato anche infido e spietato.
Il fosso invece era quasi un ripiego per i più piccoli; solo in alcune anse si poteva fare il bagno immersi sino al petto in una specie di piscina naturale.
E proprio lì quel pomeriggio Stefano e Nirio si recarono a rinfrescarsi perché l’agosto appena iniziato era veramente agostano e la festa della Madonna della Neve si preannunciava eccezionalmente torrida.
Quella mattina Stefano era stato con la sua mamma da Utimio (Eutimio Persieri) a comprare le scarpe nuove proprio per la festa: quell’anno andavano molto di moda tra i ragazzi le scarpe “con gli occhi”, sandali estivi con due aperture ovali sul davanti che sembravano proprio occhi, di un bel colore azzurrino.
Mentre scendevano, passando per il Rivellino e attraversando l’Aiaccia, al fosso, Stefano stava attento a non impolverare le scarpe nuove che avrebbe indossato a giorni durante la processione; e scansava il percorso con la breccia e terra battuta andando a cercare l’erba del bordo.
Si stava proprio bene, un silenzio irreale avvolgeva la campagna; non c’erano neanche i moscerini che impazzano d’estate a nugoli fastidiosi, ne le farfalle tra la maese, tantomeno contadini al lavoro.
Il caldo imperava e gocciole di sudore imperlavano la loro pelle mentre discorrevano di quel che avrebbero fatto durante la festa che quell’anno prevedeva un programma particolarmente divertente con i giochi popolari del pignatto, tiro alla fune e corsa nel sacco nel cortile della Chiesa della Madonna della Neve.
Chissà se li avrebbero fatti partecipare, perché i premi in palio erano allettanti e loro due si sentivano particolarmente bravi.
Così arrivarono al fosso.
Di solito il bagno si faceva in mutande per poi togliersele quando si rimettevano i calzoni corti e quindi Stefano e Nirio si sedettero su due grandi pietre prospicienti l’acqua che in quel tratto aveva una corrente piuttosto forte, ma che era largo e profondo abbastanza per fare un paio di bracciate a nuoto.
Fu allora che una delle scarpe “con gli occhi” di Stefano appoggiata sulla pietra con dentro la calza destra, scivolò nell’acqua ed in un baleno scomparve.
“Do’ è annata? Do’ è annata Ni’? L’hae vista??” – Strillava disperato Stefano.
“None, macchè, ero girato, ma nun te preoccupà che la trovamo”
E tutti e due cominciarono a guardare prima nella specie di vasca dove erano, poi sempre più affannosamente lungo gli argini del fosso.
Ma niente, del sandalo nessuna traccia.
La disperazione di Stefano, che già si figurava davanti alla sua mamma con una scarpa in mano e niente ai piedi, si trasmetteva a Nirio che intercalava una fila di parolacce ed imprecazioni, sino a quando prese per una spalla Stefano dicendogli:
“Ma scusa Ste’, semo proprio stupite; se buttamo quell’artra scarpa nel punto preciso dov’è cascata la prima e la seguimo, le trovamo tutte e due.”
Lì per lì Stefano rimase perplesso; ma poi in fondo che altro c’era da fare?
Così appoggiò il sandalo superstite sulla pietra, nel punto esatto dell’altra e con una spintarella la fece cadere in acqua.
Ma incredibilmente ancora una volta il sandalo si immerse a fondo e tratto dalla corrente del fosso scomparve in un batter d’occhio lasciando i due ragazzi con un palmo di naso.
“Lo sapevo che non te dovevo da’ retta” Piagnucolava Stefano
“Ma che stae a dì, co’ na scarpa sola che ce fae la birra???” Rispose Nirio un po’ per consolarlo e un po’ per giustificarsi.
Stefano che in qualche modo voleva rifarsi e soprattutto pensava che camminare a piedi nudi sulla strada imbrecciata non sarebbe stato per niente affatto piacevole, salì a cavalluccio sul dorso di Nirio chiedendo quasi gridando: “Ma però almeno mò me porte a casa a cavalciola”.
Nirio, che era robusto e alto, quanto Stefano era piccolino e leggero, sino all’Aiaccia ce lo portò davvero; poi si salutarono senza entusiasmo ed ognuno per la sua strada.
Al ritorno a casa, dopo due giri intorno al tavolino con la mamma che l’inseguiva con un mescola in mano, Stefano riuscì ad imboccare la porta e si fece rivedere dopo cena.
Quell’anno alla processione della Madonna della Neve, ma anche ai giochi, non ci andò per niente.
E’ vero, il fosso era per i più piccoli. Quanti ricordi, da Maggio in poi quasi tutti i giorni eravamo giù al fosso. Prima per prendere i passerotti dai nidi, poi per le ciliegie nel campo di Gargario, e quando era veramente caldo per il bagno. Avevamo costruito anche una specie di diga per avere l’acqua più alta. Si stava veramente bene.